Ormai su WhatsApp la privacy sembra quasi un miraggio: i dati delle nostre conversazioni possono finire in mano all’FBI
Chi era preoccupato per la propria riservatezza usando WhatsApp adesso ha la conferma che la nota app di messaggistica non è proprio lo strumento migliore per scambiare informazioni confidenziali. A dimostrarlo è un documento interno dell’FBI che è stato reso pubblico da Property of the People, associazione che si batte per la trasparenza e i diritti dei cittadini negli Stati Uniti.
(Nella foto: Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy)
Nel documento “Lawful Access” stilato dall’agenzia governativa di polizia federale degli Stati Uniti, e ora pubblicato sul sito di Property of the People, si legge infatti chiaramente che i servizi di intelligence americani sono in grado di ottenere legalmente grandi quantità di dati privati degli utenti proprio dalle app di messaggistica più diffuse.
Nel caso di WhatsApp, le informazioni possono essere intercettate ogni 15 minuti rilevando quali utenti parlano tra loro, quando lo fanno e quali altri utenti hanno memorizzati nella loro rubrica. Anche se i dati comunicati alle forze dell’ordine non corrisponderebbero al contenuto effettivo dei messaggi, che in linea di principio sono protetti dalla crittografia end-to-end, (non è però rassicurante il fatto che in una nota in calce del documento dell’FBI sia specificato che i contenuti dei messaggi sarebbero solo “limitati” e non esclusi), ad ogni modo da quanto emerge la riservatezza degli utenti non è così sicura come intenderebbe trasmettere lo slogan “La tua privacy è la nostra priorità, invia messaggi in tutta riservatezza” che capeggia nell’informativa dell’app di Meta, società americana che oltre a WhatsApp controlla anche Facebook e Instagram.
Per chi desidera mantenere la riservatezza delle proprie conversazioni non c’è quindi da dormire sonni tranquilli, anche perché bisogna ricordare che di recente ProPublica, un’altra importante associazione che tutela i diritti civili dei cittadini, ha appurato che WhatsApp dispone di un sistema di “moderazione” gestito da un team di persone che può accedere effettivamente ai contenuti più recenti scambiati tra gli utenti per rilevare quando i messaggi veicolano fake news, incitamento all’odio e alla violenza, minacce di tipo terroristico, ricatti ed estorsioni a sfondo sessuale, foto e video di pornografia infantile, attività di sfruttamento della prostituzione, e spam. Non mancano quindi i presupposti per giustificare i supervisori ad intrufolarsi nei messaggi degli utenti.
Se chi usa spesso WhatsApp nel tempo libero per comunicare con gli amici o nelle relazioni sentimentali ha pertanto qualche motivo di preoccupazione per la propria privacy, la questione è ancora più delicata in ambito lavorativo, anche perché di recente Federprivacy ha evidenziato che il 75% dei dipendenti utilizza proprio WhatsApp o altre app di messaggistica istantanea per condividere dati sensibili, e il 71% di essi ammette di usare queste applicazioni per inviare informazioni critiche riguardanti l’azienda per cui lavora.
Inoltre, il 38% dei professionisti ammette che ogni tanto fotografa documenti di lavoro per spedirli tramite WhatsApp, e il 41% afferma di inviare informazioni di lavoro confidenziali.
A anche se nel 60% delle imprese intervistate esiste già una policy che disciplina le app di messaggistica e sono previste anche sanzioni disciplinari per i dipendenti che infrangono le regole, a quanto pare le misure organizzative finora adottate non sono state sufficienti ad arginare il problema.Intanto per gli utenti di WhatsApp la privacy sembra diventare sempre più un miraggio.