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Visualizza articoli per tag: diffamazione online

Se aprire un blog può sembrare un’operazione semplice, lo è anche incappare nelle responsabilità penali e civili che ne derivano. A finire nelle aule dei tribunali non sono soltanto i contenuti postati dai titolari del blog ma anche frasi offensive, critiche accese o illazioni ambigue condivise dagli altri utenti e non prontamente rimosse.

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La questione affrontata dalla recente sentenza della Corte di Cassazione 28675/2022 attiene al corretto inquadramento sotto il profilo dell'ingiuria piuttosto che della diffamazione degli scritti offensivi in una chat Whatsapp. Nella vicenda il fatto consisteva nell'invio, da parte della imputata, di plurimi messaggi scritti e audio in una chat di whatsapp a cui partecipavano un suo contatto ed altre giovani ragazze, dal contenuto pesantemente offensivo nei confronti del contatto stesso. Messaggi scatenati dal fatto che quest'ultimo le aveva restituito, perché non in grado di accudirlo, un cucciolo di cane che l'imputata gli aveva regalato. 

Se la persona colpita da frasi offensive all’interno di una chat condivisa con altri non era on line al momento della loro pubblicazione il reato commesso dall’autore dell’espressioni ingiuriose è quello della diffamazione e non dell’ingiuria aggravata.

In tempo di quarantena attenzione alla giustizia fai da te. Segnalare chi esce di casa sui social network, violando le misure restrittive imposte dal Governo, potrebbe rivelarsi pericoloso. Dall’inizio dell’emergenza coronavirus a oggi si moltiplicano i gruppi pubblici, privati, ma anche i singoli profili social che condividono fotografie di chi fa jogging o di chi uscirebbe di casa violando le regole. Una mole enorme di fotografie in chiaro, targhe di veicoli e numeri civici di abitazioni private resa pubblica nel web. Tutti dati personali che per la nostra legge non possono essere diffusi da privati, neppure per denunciare presunti illeciti.

Quali che siano le frasi e locuzioni adoperate, il delitto di diffamazione può realizzarsi, quando esse abbiano capacità di ledere o mettere alla berlina l'altrui reputazione. Cosa questa che, secondo il comune sentire, si verifica anche nella forma dell'allusione e dell'insinuazione; atteso che l'intento diffamatorio può essere raggiunto anche con mezzi indiretti. Su queste basi secondo il Giudice per le Indagini Preliminari di Viterbo (ordinanza del 13 giugno 2022) deve ritenersi che abbiamo contenuto diffamatorio quei commenti sui blog o sui social network nei quali gli autori, augurando agli avvocati di finire in galera o ai loro familiari di fare la stessa fine delle vittime dei gravi reati in questione, in sostanza insinuano che il comportamento dei difensori sia riprovevole tanto quanto quello dei soggetti che assistono; così assimilando moralmente la figura del difensore a quella di chi si macchia di gravi reati.

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Si gioca sul crinale tra diritto di critica e offesa gratuita la partita tra lavoratori e aziende per i commenti sui social network. Se è lecito scrivere post commentando fatti realmente accaduti con un linguaggio moderato, la giurisprudenza non ammette invettive personali e attacchi non giustificati. Lo ha ribadito il Tribunale di Taranto con la sentenza del 26 luglio scorso , che si è pronunciata sul caso del lavoratore dell’ex Ilva licenziato per giusta causa per aver scritto sulla propria bacheca Facebook un commento su una fiction in cui accusava gli autori di non aver avuto il coraggio di fare il nome dell’azienda, concludendo con la parola «assassini».

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Il criterio discretivo tra ingiuria e diffamazione va individuato nella presenza o meno dell'offeso tra i destinatari delle comunicazioni offensive. È quindi la nozione di "presenza" dell'offeso ad assurgere a criterio distintivo; implicando questa necessariamente la presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, di offeso e terzi; ovvero una situazione a essa sostanzialmente equiparabile realizzata con l'ausilio dei moderni sistemi tecnologici.

Qualche volta può essere una foto postata su un social; qualche altra una frase. Qualche altra una frase. Altre volte invece l’insidia passa anche attraverso la semplice condivisione di un appello: guardate quella fiction. Com’è, ad esempio, accaduto a un dipendente dell’ArcelorMittal di Taranto sospeso dal lavoro in via disciplinare.

Le recensioni online di professionisti e imprese finiscono sempre più spesso sotto la lente dei giudici e delle autorità di controllo. Sotto accusa le critiche false, esagerate o tendenziose che possono integrare ipotesi di diffamazione aggravata, truffa o concorrenza sleale. Mentre Amazon il mese scorso ha cancellato oltre 20 mila false recensioni scritte in cambio di denaro e finite al centro di un’inchiesta ai suoi danni nel Regno Unito, in Italia le cose non vanno meglio. Truffe, diffamazioni, concorrenze sleali stanno diventando un problema e un costo anche per i professionisti.

Secondo la Corte di cassazione (sentenza n. 46496 del 20 novembre) utilizzare su Facebook espressioni apparentemente offensive nei confronti di un’alta carica istituzionale o persino – come nella vicenda – nei confronti di un Ministro non per forza costituisce reato di diffamazione.

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Il presidente di Federprivacy intervistato su Rai 4

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