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Post offensivi, il no dei social non deve bloccare le indagini

Se il social network non collabora nell’identificazione dell’autore del reato, le indagini devono essere approfondite per individuare chi ha scritto il post. La battaglia contro il diniego delle autorità statunitensi di fornire gli indirizzi IP degli iscritti ai social network parte dalla Cassazione che con la sentenza 42630/2018 ha imposto ai giudici nazionali di motivare adeguatamente le ragioni dell’archiviazione a carico del presunto autore della diffamazione on line.


La controversia - Il caso nasce da una querela per alcuni post offensivi pubblicati su Facebook da un utente la cui identità era rimasta incerta. Il gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva disposto l’archiviazione dopo il rifiuto dei gestori di Facebook di fornire l’indirizzo IP dell’autore del messaggio. Fatti salvi i casi di utilizzo dell’utenza da parte di più persone o di uso abusivo del nickname,rintracciare l’indirizzo IP è importante perché consente di identificare con un elevato livello di certezza chi si muove dietro un nome di fantasia.

Il decreto di archiviazione era stato però impugnato in Cassazione dalla persona offesa che aveva lamentato l’assoluta mancanza di indagini suppletive e di analisi degli ulteriori indizi forniti dalla persona offesa. Da qui la pronuncia degli ermellini che hanno imposto ai giudici di merito di andare oltre la mancata collaborazione dei social network e di approfondire tutti gli elementi utili alle indagini.

Il “no” dei social - Spesso i social network sono restii a concedere all’autorità giudiziaria italiana l’accesso ai propri dati, non essendoci un obbligo giuridico in tal senso. In teoria, in base all’articolo 132 del Dlgs 196/2003 così come coordinato con il regolamento Ue 679/2016, basterebbe un decreto motivato del Pm per ottenere i dati sul traffico telematico degli utenti. E la richiesta, limitatamente alle utenze del proprio assistito, può provenire anche dal difensore.

Ma i social network possono rifiutarsi di collaborare, chiedendo alle autorità procedenti di attivarsi tramite lo strumento della rogatoria, la cui complessità spesso fa desistere i magistrati dall’andare avanti. Oltre al fatto che, nei casi di diffamazione, la richiesta di rogatoria si scontra spesso con l’assenza della condizione di reciprocità, visto che negli Stati Uniti non rappresenta un reato ma soltanto un illecito civile. La maggior parte dei procedimenti per diffamazione i cui autori si celano dietro un nickname si concludono quindi con delle archiviazioni.

L’ordinanza della Cassazione costituisce quindi un’inversione di tendenza che potrebbe influenzare l’incisività delle indagini. Se manca l’indirizzo IP, insomma, le indagini non devono fermarsi, ma i magistrati devono approfondire tutti gli elementi utili, fermo restando che gli altri elementi probatori devono essere così stringenti e ben motivati da condurre oltre ogni ragionevole dubbio all’identificazione dell’autore del post.

Questo lo aveva già stabilito la stessa Cassazione che con la sentenza 5352/2017 aveva precisato che senza la verifica dell’indirizzo IP di provenienza, per raggiungere il massimo grado di certezza sulla paternità del post, sono necessari elementi probatori gravi precisi e concordanti.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 12 novembre 2018

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