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Intercettazioni anche se il reato non e' compreso tra quelli elencati all'articolo 266 del Codice di Procedura Penale

Con l'ordinanza in commento, il Tribunale del Riesame di Milano statuisce che, nell'ambito di un medesimo procedimento, i risultati delle intercettazioni devono essere considerati utilizzabili anche qualora le fattispecie criminose non rientrino nel catalogo di cui all'art. 266 c.p.p. L'ordinanza in questione assume particolare rilevanza ed interesse in quanto si discosta dal principio di diritto enunciato poco meno di un anno fa dalle Sezioni Unite "Cavallo". Questa, in sintesi, la vicenda processuale.

intercettazioni telefoniche

Le indagini preliminari prendevano avvio da segnalazioni anonime aventi ad oggetto il mancato pagamento di alcuni atti e visure da parte di privati cittadini che ne avevano richiesto copia presso l'Ufficio dell'Agenzia delle Entrate.

Il Pubblico Ministero apriva, dunque, un fascicolo per l'ipotesi di corruzione, ottenendo l'autorizzazione a porre in essere intercettazioni telefoniche ed ambientali dalle quali emergeva «un'ampia e diffusa illegalità operativa all'interno degli uffici» nonché «uno stabile asservimento di pubblici ufficiali alle richieste dei privati c.d. visuristi»

Nello specifico, emergevano condotte riconducibili solo in parte al grave reato di corruzione; infatti, per alcune circostanze, mancava «la prova diretta della retribuzione o della sua promessa» e, dunque – limitatamente a queste ultime – il P.M. riqualificava l'ipotesi delittuosa in abuso d'ufficio, chiedendo contestualmente al G.I.P. l'applicazione di misure cautelari per tutti i reati contestati.

Il G.I.P., facendo applicazione del principio di diritto affermato dalle note Sezioni Unite "Cavallo" (Cass. Pen., Sez. Un., 2 gennaio 2020, n. 51), non convalidava la richiesta con riferimento alle condotte ex art. 323 c.p. in quanto "trattandosi di un delitto non compreso fra quelli per cui l'art. 266 c.p.p. consente le intercettazioni, i risultati ottenuti non potevano essere utilizzati per disporre una misura cautelare in relazione agli episodi di abuso d'ufficio, ancorché questi fossero connessi a quelli di corruzione."

Non condividendo siffatta conclusione, il P.M. proponeva appello contro l'ordinanza del G.I.P., chiedendo, tra le altre cose, che venisse applicata la richiesta misura cautelare anche nei confronti di uno dei pubblici ufficiali cui erano addebitate unicamente le ipotesi di reato di abuso d'ufficio.

Ebbene, i Giudici del Tribunale del Riesame di Milano, nelle motivazioni dell'ordinanza, si soffermano sulla disciplina delle intercettazioni alla luce della giurisprudenza, della dottrina maggioritaria e della recente riforma e, all'esito di un'attenta analisi, si discostano dal recente arresto delle Sezioni Unite.

Il Tribunale del Riesame, innanzitutto, esclude che nel caso di specie ci si trovi nell'ipotesi di reati inerenti a procedimenti diversi e, per tale ragione, chiarisce che non si ricade nel perimetro del divieto di cui all'art. 270 c.p.p.; le condotte qualificate ex art. 323 c.p., risultavano, infatti, connesse ex art. 12 c.p.p. ai fatti di corruzione.

Sennonché, come noto, le già citate Sez. Unite Cavallo, avevano precisato che l'utilizzo delle comunicazioni intercettate non solo fosse da circoscriversi ai reati connessi ex art. 12 c.p.p., ma che andasse, altresì, rispettata la condizione che i reati contestati fossero tra quelli per i quali l'autorizzazione fosse astrattamente concedibile.

E' proprio su questo aspetto, però, che il Tribunale de Milano ha espresso talune riserve, argomentate seguendo quattro direttrici logiche.

Innanzitutto, a parere dei Giudici milanesi, gli arresti delle Sezioni Unite non avrebbero tenuto conto della consolidata giurisprudenza che, invece, riconosce l'utilizzabilità delle intercettazioni disposte nell'ambito del medesimo procedimento anche in relazione a reati che non erano oggetto di autorizzazione e non rientranti nell'elenco di cui all'art. 266 c.p.p.

In secondo luogo, richiamando autorevole dottrina, il Riesame sottolinea che non esiste, nel codice di rito, una disposizione che neghi l'utilizzo del materiale probatorio ottenuto da intercettazioni disposte nel medesimo procedimento per reati diversi, connessi a quelli per i quali era stata data l'autorizzazione, ma non rientranti tra quelli elencati nell'art. 266 c.p.p.

Invero, a parere dei Giudici, l'utilizzazione di siffatto materiale probatorio deve essere garantita in applicazione del principio costituzionale della "naturale utilizzabilità del risultato di una legittima attività di indagine".

In terzo luogo, l'applicazione del principio di inutilizzabilità enucleato dalla Suprema Corte determinerebbe delle "distorsioni del tutto incompatibili con il principio costituzionale della non dispersione degli elementi di prova" oltre che "una disparità di trattamento tra indagati nel medesimo procedimento".

Infine, rilevano i Giudici, risulta necessario tenere in debita considerazione la riforma delle intercettazioni entrata in vigore successivamente alla pronuncia della Corte di Cassazione.

In particolare, come noto, la riforma del comma 1 dell'art. 270 c.p.p. introduce la previsione secondo cui "I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza e dei reati di cui all'articolo 266, comma 2- bis c.p.p.".

Alla luce del citato dettato normativo, l'applicazione del principio sancito dalla Suprema Corte comporterebbe l'illogica conseguenza della utilizzabilità dei risultati probatori in procedimenti non connessi e l'inutilizzabilità delle intercettazioni per reati diversi nell'ambito di procedimenti connessi.

In conclusione, il Tribunale del Riesame, nel caso di specie, ha confermato la piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni anche rispetto ad ipotesi di reato – così come da originaria imputazione o come modificate nel corso delle attività investigative – non rientranti nel catalogo di cui all'art. 266 c.p.p.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 22 dicembre 2020

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