Chi diffama sui social non si può nascondere dietro a un dito se tutti gli indizi confermano che è lui l'autore del reato
La diffusione di un messaggio denigratorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione aggravata. Ciò perché la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall'utilizzo di una bacheca social ha la capacità potenziale di raggiungere un numero indeterminato di persone. Le “vetrine virtuali” raccolgono spesso un numero molto elevato di lettori perché l'utilizzo dei social integra oggi una delle modalità principali attraverso le quali gruppi di soggetti condividono esperienze di vita, professionali, sociali, affettive.
Pertanto postare un commento sulla propria bacheca Facebook realizza una incontrollabile pubblicizzazione e diffusione di esso, di guisa che, se offensivo, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall'art. 595 co. 3 c.p. secondo cui se la “offesa” è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.
IP, file di log, password - Nella vicenda affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza 24212/2021 si contestava l’effettiva riferibilità della condotta all'imputata che la Corte territoriale aveva basato su prove che a dire della difesa non erano “certe”. Sarebbe mancata la sicurezza della riferibilità del profilo Facebook e dei post diffamatori all’imputata essendo stata omessa ogni indagine sui file di log, indirizzo IP e altri dati informatici.
Evidenziava la difesa che a ben vedere solo l'accertamento su IP (codice numerico assegnato dal servizio di rete in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico al momento della connessione da una data postazione) e sui file di log (tempi e orari della connessione) può consentire di attribuire la indubitabile riferibilità dei post all’utente di un social network. Anzi persino la password del profilo è un dato che può essere “conoscibile” da più soggetti; senza contare che la registrazione dei profili è in genere libera ben potendo più utenti utilizzare un nickname sostanzialmente analogo.
Segnali e “spie” indiziarie - Rigettando il ricorso la Corte di Cassazione si è attestata sulla riferibilità della diffamazione in argomento anche su base indiziaria a fronte della convergenza plurale e precisa di alcuni elementi quali: il movente; l'argomento del forum su cui è avvenuta la pubblicazione; il rapporto tra le parti; la verosimile provenienza del post dal profilo virtuale dell'imputato; utilizzo del suo nickname. Il tutto quindi anche in mancanza di “speciali” accertamenti circa la provenienza inequivocabile del post diffamatorio dall'indirizzo IP dell'utenza web intestata all'imputato.
In tal verso assieme ai richiamati elementi indiziari la Corte attribuisce rilievo anche alla assenza di una denuncia di cd. “furto di identità” da parte dell'intestatario della bacheca sulla quale vi è stata la pubblicazione dei post diffamatori. Risponde a criteri logici e a massime di comune esperienza ritenere ragionevole la provenienza di un post dal profilo Facebook di un utente che abbia omesso di denunciare l'uso illecito del proprio nome da parte di terzi.
Sicché in tali circostanze non può essere esclusa la riferibilità del fatto all'imputato quando pur non essendo stati svolti accertamenti sulla titolarità della linea utilizzata per le connessioni Internetrisultino (comunque) altri elementi coincidenti quali: la provenienza del post da un profilo Facebook che indica chiaramente il nome dell'imputato; l’assenza di una segnalazione sull’improprio uso del proprio nome in rete; la mancata “presa di distanza” dalle offese postate. La Corte ha infine ricalcato un ultimo aspetto chiave: va senza dubbio attribuito rilievo al contenuto stesso dei post offensivi qualora richiamino “fatti” oggettivamente conoscibili da ben poche persone diverse dall’imputato.
Fonte: Il Sole 24 Ore del 9 luglio 2021