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Cassazione: non basta l’archiviazione, l’indagato resta in banca dati per venti anni

I dati e le informazioni della persona sottoposta a indagini penali, restano nella banca dati della polizia, anche in caso di accertamento dell’estraneità ai fatti, per venti anni dalla data di archiviazione. E trascorsa la metà del tempo, dunque dieci anni, la sola tutela sta nella certezza che saranno visibili ai soli operatori interessati. La Corte di cassazione (Sentenza 21362) analizza per la prima volta il Dpr 15/2018 con il quale sono stati attuati i principi del codice della privacy relativi al trattamento effettuato per ragioni di polizia.

Una completa analisi di una norma che, per la sua natura sostanziale, è applicabile anche a casi come quello esaminato, in cui l’acquisizione dei dati, come la domanda di cancellazione dal Ced del Viminale, ci sia stata prima dell’entrata in vigore.

A chiedere di uscire dall’archivio dati interforze, era stato un professionista sottoposto ad indagini penali, la cui posizione era stata stralciata, dopo l’accertamento della sua estraneità ai fatti.

L’iscrizione non rimossa, a suo avviso, non era di alcuna utilità alla polizia e danneggiava la sua immagine professionale. La Cassazione però respinge il ricorso, con una decisione che tiene conto delle norme nazionali, della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo sul rispetto della vita privata, dei regolamenti e delle raccomandazioni comunitarie, e anche delle norme sul diritto all’oblio.

La Suprema corte ricorda che, in generale la norma, per i trattamenti automatizzati, fissa dei termini massimi tarati sulla natura del provvedimento o delle attività alle quali si riferiscono. La regola è che trascorsa la metà del tempo massimo di conservazione, se uguale o superiore ai quindici anni, ai dati possono accedere solo gli operatori abilitati e designati. Termini su cui, proprio il Garante privacy, ha espresso le sue perplessità. Per la Cassazione le norme trovano un difficile bilanciamento tra l’interesse collettivo alla prevenzione e alla repressione dei reati e alla tutela dell’ordine pubblico e quello individuale alla riservatezza.

Nel conto c’è dunque l’esigenza di garantire un corretto trattamento e la possibilità, prevista, di ottenere la cancellazione quando viene meno lo scopo che ne ha giustificato la conservazione.

Il decreto per i giudici è in linea con l’articolo 8 della Cedu che, nell’escludere l’ingerenza della pubblica autorità nella vita privata, fa salva l’ipotesi in cui l’intromissione sia funzionale, in un Paese democratico, alla salvaguardia di alti valori: dalla tutela dell’ordine pubblico, alla protezione dei diritti e della libertà altrui. Il Dpr del 2018 si occupa poi di casi, come quello esaminato, in cui le informazioni sono relative ad attività della polizia giudiziaria che si sono concluse con un procedimento di archiviazione: fissando a venti anni dall’emissione dell’atto il tempo per la cancellazione. Con l’avvertenza che la decisione di archiviare va inserita subito in banca dati.

La Cassazione analizza anche le norme interne ed europee che hanno contribuito a definire il cosiddetto diritto all’oblio, teso ad evitare la divulgazione dei dati quando questa non è più giustificata da un interesse attuale.  Garanzie che riguardano anche il trattamento dei dati per finalità di polizia. Ma il diritto è rispettato dalle restrizioni poste dal Decreto del 2018, che limita la diffusione e valorizza gli scopi del trattamento.

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