Doppia protezione per il know how aziendale
Il decreto legislativo 11 maggio 2018 n. 63, in vigore dal 22 giugno, ha innovato il codice della proprietà industriale, incidendo in modo significativo sulla tutela del segreto commerciale. Le modifiche si adeguano alla recente direttiva comunitaria, volta a uniformare un sistema squilibrato, con livelli di protezione difformi e più blandi in alcuni Stati, di ostacolo alla leale concorrenza e alla competitività imprenditoriale. L’obiettivo condivisibile della riforma è consistito dunque nel contemperare la libertà dell’idea e della sua diffusione (è il caso del reverse engineering) con il divieto dello sfruttamento di informazioni destinate a rimanere segrete, sul presupposto di condizioni di base.
Ecco allora che la nuova disciplina incide sulla tutela civile e penale, attraverso la tecnica di innesti nell’impianto codicistico attuale. In particolare, l’art. 98 del codice della proprietà industriale, nel definire la nozione di segreto commerciale, vincola la successiva tutela alla contemporanea esistenza di tre fattori, consistenti nel carattere non noto o facilmente accessibile agli addetti ai lavori, nell’intrinseco valore economico, nella sottoposizione da parte del legittimo detentore «a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete». Soprattutto tale prescrizione appare profondamente innovatrice, in quanto configura un obbligo di predisporre protocolli interni di secretazione, condizione indispensabile per fondare l’illecito utilizzo del terzo e la conseguente responsabilità. Infatti il successivo articolo prevede il diritto del legittimo detentore di vietare l’acquisizione, la rivelazione o l’utilizzo dei segreti commerciali. La formulazione non è impeccabile dal punto di vista stilistico, anzi appare da un lato ridondante e dall’altro ambigua, contemplando un’eccezione nel «caso in cui essi siano stati conseguiti in modo indipendente dal terzo». L’inciso sembra alludere a situazioni in cui quest’ultimo abbia ottenuto autonomamente e per vie legittime (fortuite?) le informazioni rientranti nel segreto commerciale.
L’articolo 99 prosegue apprestando una responsabilità civile da acquisizione, utilizzazione, rivelazione del segreto commerciale nelle ipotesi di consapevolezza della loro natura e in quella di colposa non conoscenza («avrebbe dovuto essere a conoscenza»): l’accertamento, necessariamente devoluto al giudice, non sarà agevole e formerà oggetto di controversia nella prassi, per l’intrinseca difficoltà di perimetrare i confini di negligenza del terzo.
L’architettura complessiva della riforma si innerva nell’art. 623 c.p., secondo un climax ascendente che riserva alla sfera penale i comportamenti dotati di un disvalore maggiore e come tali non trattabili con lo strumentario civilistico. Così, viene punita con la reclusione fino a due anni la condotta di chi, in ragione del suo stato o ufficio, professione o arte, venuto a conoscenza di segreti commerciali o di notizie destinate a rimanere segrete sopra scoperte o invenzioni scientifiche, provvede a rivelarli o a utilizzarli a proprio o altrui profitto. Il secondo comma estende l’incriminazione a chiunque proceda ad analoga rivelazione o impiego sul presupposto di un’acquisizione abusiva del segreto commerciale.
In sostanza, semplificando, le condotte preparatorie sono fonte di responsabilità civile, mentre il quasi naturale sviluppo, lo sfruttamento economico del segreto, assume rilevanza penale. Sul piano teorico la distinzione è chiara, non altrettanto su quello concreto, dal momento che il profitto atteso è intrinsecamente collegato all’illecita rivelazione o impiego. Specie in considerazione che l’animus lucrandi è inteso dalla giurisprudenza in modo estensivo, comprensivo di ogni sorta di utilità, anche non patrimoniale, come nel caso della soddisfazione di un rancore nutrito nei confronti del legittimo titolare del segreto.
L’art. 623 c.p. prevede inoltre un’aggravante se il reato è commesso mediante strumenti informatici; la punibilità è a querela di parte. Infine, il Dlgs interviene sull’art. 388 c.p., estendendo il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice anche all’inosservanza di quelli emessi in funzione inibitoria o correttiva dei diritti di proprietà industriale o di omessa riservatezza. Nel complesso, una riforma equilibrata, che adatta le linee comunitarie alle peculiarità del nostro sistema imprenditoriale, nel tentativo di fornire maggiore incisività di tutela e rafforzare la competitività del made in Italy.
Fonte: Il Sole 24 Ore del 4 settembre 2018