NEWS

Whistleblowing, quel vuoto di tutele per il soggetto segnalato

È noto che la disciplina relativa al "whistleblowing" (introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 6.11.2012 n. 190 in ottica di tutela della Pubblica Amministrazione e successivamente estesa anche al settore privato in forza della legge 30.11.2017 n. 179) sia incentrata sulla tutela del cosiddetto "whistleblower", ossia di colui che effettua la segnalazione concernente condotte illecite e/o violazioni della disciplina dei Modelli di Organizzazione e Controllo ex decreto 231/2001.

Whistleblowing, colpisce il silenzio normativo

Ciò è assolutamente logico, dato che lo scopo ispiratore dell'istituto è quello di favorire l'emersione di illeciti e, più in generale, di disfunzioni afferenti la corretta e fisiologica attività degli enti, tanto pubblici che privati. In quest'ottica, le doverose tutele previste a favore del segnalante circa la sua riservatezza e circa il rigoroso divieto di misure ritorsive o discriminatorie nei suoi confronti appaiono indispensabili per il raggiungimento delle finalità che si hanno di mira.

Detto questo, colpisce il silenzio normativo (e il sostanziale e generalizzato disinteresse) inerente un secondo ed ineliminabile aspetto dell'istituto, quello che concerne la tutela del soggetto segnalato, che può essere oggetto di segnalazioni non solo meramente infondate, ma anche false e/o strumentali, motivate da ragioni ben poco commendevoli (invidia, rivalità lavorativa, astio, antipatia, etc. etc.).

Limitandosi alla normativa prevista dall'articolo 6, commi 2 bis e segg. del decreto 231/01 (introdotta dalla già menzionata L. 179 del 30.11.2017), l'unica tutela indirettamente prevista per il soggetto ingiustamente segnalato è concepita come misura di deterrenza contro il segnalante, che deve essere soggetto a sanzione disciplinare qualora effettui, con dolo o colpa grave, una segnalazione che si rilevi infondata (articolo 6, comma 2 bis, lett. d), Decreto 231/2001); a questo proposito, peraltro, la legge nulla dice circa la comunicazione al segnalato della segnalazione a suo carico rivelatasi "infondata".

Non c'è dubbio che la segnalazione infondata caratterizzata da dolo possa costituire reato e possa rientrare, a seconda del suo contenuto, nelle fattispecie della calunnia (articolo 368 c.p.) o della diffamazione (articolo 595 c.p.). In particolare, se si accusa falsamente taluno di un reato (con le modalità di cui all'articolo 368 c.p.) che il segnalante sa non esser avvenuto o, comunque, non essere stato compiuto dal segnalato, può risultare integrato il reato di calunnia.

Qualora, invece, attraverso la falsa segnalazione si leda la reputazione del segnalato (attribuendogli falsamente un fatto che, pur non costituendo reato, è idoneo a gettare discredito sulla reputazione di quest'ultimo), può risultare integrato il reato di diffamazione.

In questi casi, pur nel silenzio della legge, ritengo che sia doveroso che l'organo che ha raccolto la segnalazione rivelatasi (dolosamente) infondata la c omunichi al soggetto segnalato, per consentirgli di adottare le possibili iniziative a sua tutela (ad es., presentazione di una denuncia-querela all'Autorità Giudiziaria). Ragionare diversamente significherebbe conferire una ultra-tutela al soggetto segnalante, che egli non meriterebbe stante la dolosa infondatezza della segnalazione effettuata nonché in considerazione del fatto che con il "whistleblowing" si intende salvaguardare solo il segnalante in buona fede, non quello che approfitti dell'istituto per screditare, diffamare o addirittura calunniare (per ragioni spesso molto disdicevoli) qualcun altro.

In sostanza, la segnalazione dolosamente infondata non deve solo portare – come previsto dalla legge – all'irrogazione di una sanzione disciplinare a carico del segnalante, ma deve essere anche comunicata (una volta accertata la sua dolosa falsità, beninteso) al segnalato, per consentigli di adottare i rimedi previsti in sede civile e, laddove vi siano gli estremi dei reati sopra menzionati, anche in sede penale; non si può sacrificare sull'"altare" del "whistleblowing" la tutela del soggetto diffamato/calunniato, creando spazi (peraltro di dubbia legittimità costituzionale) di impunità in favore del segnalatore in mala fede.

Come regolarsi, invece, nel caso in cui la segnalazione sia infondata nel merito ma il segnalante sia incorso (non già il dolo ma) in colpa?

Da un punto di vista disciplinare, soccorre ancora l'art. 6, comma 2 bis, lett. d) del Decreto 231/01; il segnalante sarà sanzionato solo in caso di colpa grave. Fermo ciò, la segnalazione (colposamente) infondata deve essere comunicata al soggetto (ingiustamente) segnalato? Qui la questione è certamente più discutibile, perché taluni ritengono che la tutela del segnalante vada comunque assicurata laddove egli non versi in mala fede, soprattutto tenendo conto che lo scopo del "whistleblowing" potrebbe essere frustrato se si prevedesse espressamente la comunicazione di questa tipologia di segnalazione infondata al segnalato, soprattutto in caso di colpa lieve (che non viene punita nemmeno a livello disciplinare, ma che può essere perseguita in sede civile).

D'altro canto, è pur vero che il soggetto ingiustamente segnalato può avere interesse a perseguire (civilisticamente) il soggetto che, colposamente, gli abbia attribuito reati o anche violazioni delle regole intra-societarie poste a presidio del corretto operato dell'ente (cosa che il segnalato non potrebbe fare se non venisse reso edotto della "archiviazione" di una segnalazione effettuata a suo carico). Su questo punto sembra davvero indispensabile un intervento chiarificatore del Legislatore.

Altro interrogativo che ci si può porre concerne il fatto se esista o meno, in capo al soggetto che riceva una segnalazione dolosamente infondata che costituisca anche reato (calunnia, diffamazione o altra eventuale fattispecie delittuosa), un obbligo di segnalare il fatto all'Autorità Giudiziaria, indipendentemente dalle iniziative ad opera del soggetto segnalato.

Credo che la soluzione a questo interrogativo vada ricercata, in armonia con le norme del codice di procedura penale, in relazione alla natura giuridica dell'organo che raccoglie questo tipo di segnalazione. Se sussistono gli estremi del reato di calunnia, che è delitto perseguibile d'"ufficio" (ossia è procedibile a prescindere dalla querela), occorre distinguere: se l'organo che ha raccolto - nell'esercizio o a causa delle proprie funzioni – la segnalazione rivelatasi calunniosa è inquadrabile nelle categorie del pubblico ufficiale o in quella dell'incaricato di pubblico servizio, questo ha il dovere di denunciare il fatto all'Autorità competente, e ciò anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuibile (art. 331 c.p.p.).

Qualora la segnalazione che integra un reato perseguibile di ufficio - ad es., la calunnia - sia raccolta da un privato (ad es., dall'Organismo di Vigilanza di un ente privato), quest'ultimo "può" (ma non deve necessariamente) denunciare il fatto all'A.G. (art. 333, comma primo, c.p.p.).Nel caso in cui, invece, si abbia a che fare con un reato procedibile solo a "querela di parte" (ad. es., diffamazione), colui che raccoglie la segnalazione dolosamente infondata non può segnarla alla A.G., anche se, come si è visto sopra, a mio parere deve comunque comunicare tale fatto al soggetto ingiustamente segnalato per consentirgli di sporgere querela e/o di intraprendere altre opportune iniziative.

Qualche ulteriore riflessione in materia di segnalazione anonima. La tematica non viene solitamente molto approfondita, forse perché non da luogo alle "classiche" problematiche afferenti la tutela del segnalante in ordine alla sua riservatezza e/o al divieto di provvedimenti ritorsivi e discriminatori nei suoi confronti, dato che il segnalante stesso non si palesa. Ciò non toglie, però, che le sopra indicate esigenze di tutela della persona segnalata sussistono anche in caso di segnalazione anonima.

In realtà, andrebbe forse considerata l'opportunità di una soluzione drastica, mutuata dal codice di procedura penale, in forza del quale "delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso" (art. 333, comma terzo, c.p.p.). Si tratta di un principio di civiltà, non solo giuridica. La delazione anonima non merita di essere coltivata; anche in ambito "whistleblowing", credo sia giusto che chi segnala ci debba mettere "la faccia", tanto più che le menzionate novelle legislative hanno notevolmente rafforzato la tutela del segnalante, per cui oggi, almeno in teoria, non dovrebbe sussistere ragione per la quale il segnalante si debba nascondere dietro l'anonimato.

Per altro verso, le esigenze di protezione della persona ingiustamente segnalata non sono meno pressanti e meritevoli di tutela in caso di segnalazione anonima, strumento ancora più insidioso proprio perché il segnalante mira (anche) ad evitare di doversi confrontare con il segnalato in caso di infondatezza della segnalazione. La verità è che, in mancanza di apposita disciplina normativa, nella prassi sia gli enti pubblici (la nuova versione delle "Linee Guida", depositate lo scorso 24 giugno dall'Anac, dedica poche righe alla segnalazione anonima (pag.16), riconoscendo che non è disciplinata dall'art. 54-bis del Dlgs n. 165/2001, ma non ripudiandone l'utilità, prevedendosi espressamente che essa possa essere "considerata" dalle Amministrazioni o dalle Autorità) sia quelli privati finiscono con l'ammettere la segnalazione anonima, nel senso che non la ripudiano e la utilizzano come base per avviare le "indagini" interne volte a verificarne la fondatezza (basta fare una "carrellata" sul contenuto dei Modelli ex Decreto 231/01 per verificare che la quasi totalità degli ammettono la segnalazione anonima. In alcuni casi la sua presa in considerazione viene subordinata ad una verifica "rafforzata").

Ad essere sinceri, l'avvocato penalista sa che qualcosa di analogo accade anche in ambito penale, nonostante l'apparente "sbarramento" dell'art. 333, comma terzo, c.p.p.; infatti, piuttosto spesso il magistrato inquirente utilizza l'anonimo (del quale non può effettuare un'utilizzazione "diretta", nel senso che non può, a titolo di esempio, presentarlo in giudizio come prova o qualificarlo come indizio per ottenere l'emissione di una misura cautelare) quale spunto investigativo. Volendo essere franchi, questa prassi invalsa tanto in ambito giudiziario, quanto in ambito "231", appare censurabile, perché finisce con il fornire dignità alla denuncia/segnalazione anonima, nel senso che le conferisce una sua utilizzabilità, per quanto indiretta (ossia come base per attivare un procedimento "whistleblowing" e per suscitare delle "indagini" che sono inevitabilmente quanto strettamente connesse al contenuto della segnalazione anonima).

Purtroppo (o per fortuna, a seconda dei punti di vista), questa prassi viene legittimata dalla amara consapevolezza che, qualora la segnalazione anonima venisse semplicemente cestinata, si ridurrebbe in maniera assai consistente il numero delle segnalazioni, dato che – a torto o a ragione – molte persone non si sentono affatto tranquillizzate dalle previsioni normative poste a loro tutela e preferiscono agire coperte dall'anonimato.

Questo essendo (piaccia o non piaccia) lo "stato dell'arte", si deve tornare a considerare il tutto nell'ottica del soggetto segnalato. Nel caso in cui la segnalazione anonima non venga subito accantonata e se ne sia verificato il suo (falso) contenuto, ritengo che rimangano validi i principi riportati sopra: la segnalazione (almeno quella costituente reato) deve essere messa nella disponibilità del segnalato per consentirgli di presentare, ove ve ne fossero gli estremi, denuncia-querela contro ignoti per il reato di calunnia, di diffamazione o altri eventualmente riscontabili nel caso concreto. A ciò si aggiunga che l'esigenza di avvertire il soggetto segnalato di una segnalazione anonima infondata ai suoi danni deve essere apprezzata anche in considerazione del fatto che il segnalato stesso può affidare ad un legale il compito di effettuare "investigazioni difensive preventive" ex artt. 327 bis e 391 nonies c.p.p., istituti che possono servire alla persona ingiustamente accusata di un reato anche per individuare l'identità della persona che abbia effettuato una segnalazione anonima a suo carico.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 30 giugno 2021  - di Francesco Giovannini

Note sull'Autore

Federprivacy Federprivacy

Federprivacy è la principale associazione di riferimento in Italia dei professionisti della privacy e della protezione dei dati, iscritta presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MISE) ai sensi della Legge 4/2013. Email: [email protected] 

Prev I messaggi di WhatsApp non valgono come prova nel processo tributario: i dati rimangono solo nel dispositivo senza lasciare traccia
Next Registro dei trattamenti, valutazione d’impatto e violazioni dei dati: gli adempimenti del sub-responsabile

Il presidente di Federprivacy a Report Rai 3

Mappa dell'Italia Puglia Molise Campania Abruzzo Marche Lazio Umbria Basilicata Toscana Emilia Romagna Calabria

Rimani aggiornato gratuitamente con la nostra newsletter settimanale
Ho letto l'Informativa Privacy