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Va in carcere il militare che insulta lo Stato su Facebook

Il militare che nel commentare una notizia scrive su Facebook «Stato di merda» commette il reato di vilipendio nella più grave formulazione - rispetto al codice penale comune - dell'articolo 81 del Codice penale militare di pace. Infatti, per i militari sono previsti da due a sette anni di carcerazione militare mentre per i cittadini comuni la multa da 1.000 a 5.000 euro. La Corte di Cassazione ha depositato la sentenza n. 35988 che conferma la condanna di un tenente di vascello a un anno e quattro mesi di reclusione per aver postato la frase incriminata in relazione alla notizia di una grande commessa commerciale dall'India per la realizzazione di sette fregate da parte di una delle più grandi aziende italiane..

Come rileva la sentenza l'espressione offensiva rivolta allo Stato era riferibile al grande disappunto da parte del militare per la vicenda dell'arresto dei nostri marò da parte della polizia indiana.

In quanto graduato, all'imputato è stata anche applicata la specifica aggravante prevista dal Codice militare. Ma la difesa ha tentato di smontare la condanna della Corte di appello militare affermando, in primis, che più che il reato di vilipendio dello Stato e delle sue istituzioni (articolo 81 del Codice penale militare di pace) l'imputazione sarebbe dovuta essere di vilipendio della Nazione italiana prevista all'articolo 82 sanzionato nel massimo con cinque anni di carcere.

La Cassazione respinge l'istanza di riqualificazione, sostenuta tra l'altro anche dalla procura militare, affermando che la critica si riferiva allo Stato "istituzione" in quanto attore di relazioni internazionali e non come "comunità", il complesso degli individui che lo compongono, ciò che intende il Codice per "Nazione". Ma la vicenda spicca soprattutto per le considerazioni della sentenza sui presupposti dei reati commessi tramite Facebook.

Dalla sentenza di legittimità emergono le insidie che i social network contengono per gli utenti esposti, anche in maniera inconsapevole, al rischio di commettere reati. Le specificità di internet comportano l'intrinseca aggravante della pubblicità dei comportamenti diffamatori, al pari di quelli commessi a mezzo stampa. Infatti, la Cassazione, negata la continenza dell'espressione postata - e quindi l'esercizio di una libera critica politica - ha ricordato che per giurisprudenza costante la pubblicità dei messaggi veicolati sui Facebook è presunta. Infine, gli ermellini respingono l'argomento difensivo della mancata prova della paternità della frase incriminata vista la certa attribuzione all'imputato del profilo social e la circostanza, più risalente nel tempo, in cui si era dato da fare per rimuovere la foto di un collega dal medesimo profilo Internet. A riprova dell'appartenenza del profilo Facebook al militare.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 14 agosto 2019

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