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Tempestare di critiche il proprio avvocato con mail e sms può costare una condanna per stalking

Se è legittimo criticare il proprio avvocato, esagerare, tempestandolo di mail e sms, può costare una condanna per stalking. È quanto emerge da una recente sentenza della quinta sezione penale della Cassazione (n. 35022/2021) che ha confermato la condanna ex articolo 612 bis c.p. nei confronti di un uomo che aveva preso di mira la propria legale. A pesare sia lunga durata della condotta che la mole di messaggi inviati.

Stalking per il cliente che critica ‘a lungo' il proprio avvocato

La vicenda - A finire sotto accusa per atti persecutori ai danni della professionista è l'ex cliente, il quale vedendo confermata la condanna nel merito si rivolge al Palazzaccio, lamentando, tra l'altro, vizio di motivazione circa l'elemento soggettivo del reato, avendo egli agito "con l'unico scopo di esprimere il proprio disappunto in ordine all'operato del professionista". Peraltro, a suo dire, sotto effetto di una patologia psichiatrica, idonea ad incidere sulla propria capacità di intendere e di volere.

La decisione - Per gli Ermellini, tuttavia, il ricorso è infondato sotto ogni aspetto. I reiterati messaggi, ingiuriosi e minacciosi, sia con l'uso del telefono che telematici, a mezzo mail, sostengono, infatti, "non avevano solo il carattere della petulanza, di cui all'art. 660 c.p. ma erano risultati tali da integrare il reato di atti persecutori, per la lunga durata della condotta, il numero spropositato di questi, oltre ad avere il descritto contenuto, quindi tali da determinare uno degli eventi tipici di cui all'art. 612-bis c.p.".
Quanto alla perizia, la Corte richiama l'orientamento consolidato (ex multis, Cass. SS.UU. n. 39746/2017) secondo cui la stessa "non rientra nella categoria della prova decisiva ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell'art. 606, 1° co., lett. d), c.p.p., in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione".

Nel caso di specie, il giudice d'appello, peraltro, ha escluso che la relazione del consulente di parte avesse evidenziato situazioni patologiche o disturbi della personalità non esistenti in precedenza, trattandosi di rilettura dei medesimi comportamenti tenuti dall'imputato rispetto ai quali, non era mai stato chiesto accertamento peritale.

Né la sottoposizione dell'imputato all'istituto dell'amministrazione di sostegno, aggiungono da piazza Cavour, "può determinare automaticamente l'incapacità del medesimo a partecipare coscientemente al processo, ai sensi dell'art. 70 c.p.p., dovendo quest'ultima essere autonomamente accertata, ai fini della sospensione del processo".

Nulla di fatto neppure per la doglianza sul diniego della sospensione condizionale della pena, tenuto conto dell'orientamento in proposito secondo cui il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l'obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell'art. 133 c.p., potendo limitarsi ad indicare quelli ritenuti prevalenti (cfr. Cass. n. 19298/2015). Nella vicenda, i giudici di secondo grado, si sono soffermati sull'assenza di una prognosi favorevole sul futuro comportamento dell'imputato, dati anche i precedenti penali che, sebbene risalenti, sono stati reputati ostativi, trattandosi peraltro di condanne a pena condizionalmente sospesa, beneficio evidentemente privo dell'auspicata efficacia deterrente.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 29 settembre 2021

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