Quando il cronista diventa storico, con il passare del tempo il diritto all’oblio si rafforza
Quando il cronista diventa storico, allora il diritto all’oblio si rafforza. Ovvero, la pubblicazione di un articolo che, a distanza di anni, ripropone, con nome e cognome del protagonista, fatti ormai passati, non è legittima. A meno che si tratti di personaggi tuttora di pubblico interesse. A queste conclusioni arriva la Cassazione con la sentenza 19681/2019 sul confine che passa tra diritto all’oblio e diritto d’informazione.
Il caso approdato sino in Cassazione è a suo modo esemplare e riguarda un articolo su un caso di omicidio in ambito familiare verificatosi nel 1982. Il colpevole aveva nel frattempo scontato i 12 anni di reclusione cui era stato condannato e, di fronte alla pubblicazione, aveva lamentato danni sia psicologici sia patrimoniali.
Le sue richieste erano state respinte dai giudici di merito. In particolare, la Corte d’appello aveva osservato che la pubblicazione era avvenuta nel contesto di una rubrica settimanale nella quale venivano rievocati 19 omicidi del passato, particolarmente efferati, e che non c’era alcuna volontà di riproporre una condanna, questa volta mediatica, a carico del colpevole. Si era piuttosto in presenza di un progetto editoriale da fare rientrare nel diritto costituzionale di cronaca, di libertà di stampa e di espressione.
Le Sezioni unite però non sono state esattamente di questo avviso e hanno annullato la sentenza impugnata, rinviando la nuova decisione alla Corte d’appello che però dovrà tenerne presente le conclusioni. Che arrivano dopo avere delimitato il punto di partenza: per le Sezioni unite cioè, in discussione c’è il diritto di chi desidera non vedere nuovamente pubblicate notizie su vicende in passato legittimamente diffuse, almeno non quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione.
Le Sezioni unite puntualizzano poi che, in caso di ripubblicazione di quanto a suo tempo rivestiva interesse pubblico, il giornalista non sta esercitando il diritto di cronaca quanto quello alla rievocazione storica di quei fatti. Questo non esclude, ammette la sentenza, che possano insorgere elementi nuovi per cui la notizia ritorni di attualità, ma «in assenza di questi elementi, però, tornare a diffondere una notizia del passato, anche se di sicura importanza in allora, costituisce esplicazione di un’attività storiografica che non può godere della stessa garanzia costituzionale che è prevista per il diritto di cronaca».
Certo l’attività di rievocazione storica è preziosa per una collettività: ne ripercorre fatti e personaggi che ne possono rappresentare l’anima. Ma, a meno che non riguardi protagonisti che hanno rivestito e rivestono tuttora un ruolo pubblico, «deve svolgersi in forma anonima, perchè nessuna particolare utilità può trarre chi fruisce di quell’informazione dalla circostanza che siano individuati in modo preciso coloro i quali tali atti hanno compiuto».
In altre parole, mettono in evidenza le Sezioni unite, l’interesse a conoscere un fatto, espressione del diritto a informare e a essere informati, «non necessariamente implica la sussistenza di un analogo interesse alla conoscenza dell’identità della singola persona che quel fatto ha compiuto».
Di più. Le Sezioni unite precisano che non può essere messa in discussione la decisione editoriale di pubblicare, con cadenza settimanale, nell’arco di un certo periodo di tempo, la ricostruzione storica di una serie di fatti criminali che ha impressionato la vita di una collettività.
Però toccherà all’autorità giudiziaria verificare l’esistenza di un interesse qualificato alla diffusione con riferimenti precisi alla persona o alle persone che di quegli eventi furono protagoniste sì, ma in un’epoca ormai passata. Infatti l’identificazione personale che allora certo rivestiva un’importanza evidente, adesso potrebbe diventare irrilevante per l’opinione pubblica, una volta che il tempo è trascorso e la memoria collettiva è sbiadita.
Fonte: Il Sole 24 Ore del 23 luglio 2019