La Rai condannata a risarcire professionista per riprese occulte
La Cassazione, sentenza n. 18006 del 9 luglio 2018, censura la pratica delle interviste televisive con «riprese occulte», vale a dire tenendo la telecamera accesa all'insaputa del soggetto che dunque non sa né di essere registrato né tantomeno che verrà mandato in onda. La Suprema corte ha così respinto il ricorso della Rai contro la decisione del Tribunale di Roma che nel 2014 l'aveva condannata, in solido con un giornalista free lance della trasmissione Report, a risarcire 25mila euro a un notaio filmato nel corso di un'inchiesta sui professionisti coinvolti nelle attività di riciclaggio e scommesse illegali.
Il notaio aveva lamentato che l'uso della telecamera non era palese e che nella trasmissione le sue parole erano state «mutilate» producendo un effetto «fuorviante». Per cui aveva chiesto, e ottenuto, il risarcimento del danno non patrimoniale. Secondo il Tribunale la veridicità del racconto era provata «anche dalle modalità, parziali e mai frontali, delle inquadrature del notaio» e «dalla scarsa qualità della voce registrata con mezzi inadeguati». Il trattamento dei dati personali da parte della Rai e del giornalista doveva dunque ritenersi «illecito» perché la ripresa era stata effettuata «in modo occulto e con artifici, quindi in violazione dell'art, 2 del codice deontologico dei giornalisti».
Non solo, il notaio era stato presentato ai telespettatori «come un soggetto al quale era necessario carpire informazioni in modo non palese e dando l'impressione che egli fosse coinvolto in vicende di malaffare». Pur ammettendosi la verità della notizia e dell'interesse pubblico, proseguiva il tribunale, «difettava il requisito della continenza, essendo la figura del notaio stata proposta al pubblico in modo ingiustificatamente lesivo e pregiudizievole».
Né infine la circostanza che il giornalista era un free-lance scriminava la Rai che comunque aveva potuto visionare il materiale prima della messa in onda.
Nel ricorso, la Rai ha puntato sulla specificità del lavoro giornalistico e sul diritto di cronaca, aggiungendo che il giornalista si era comunque qualificato mentre la telecamera dell'operatore era tenuta «in modo visibile». Per i giudici di legittimità tuttavia la situazione non era tale - pericolo o necessità - per cui il giornalista poteva esimersi dal dichiarare la finalità di raccolta dei dati personali.
Il trattamento dei dati personali per finalità giornalistiche, scrive la Cassazione, «può essere effettuato anche senza il consenso dell'interessato (art. 137, comma 2, del Dlgs n. 196/2003), ma pur sempre con modalità che garantiscano il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, della dignità dell'interessato e del diritto all'identità personale, nonché il rispetto del “Codice di deontologia”» che ha valore di fonte normativa.
«A norma dell'articolo 2 del codice deontologico - prosegue la decisione -, il giornalista è tenuto a “(rendere) note la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta” delle notizie e ad “(evitare) artifici e pressioni indebite”».
Nel caso in esame, tra le finalità vi era quella di riprendere le immagini dell'intervista per mandarle in onda «senza però che l'intervistato ne fosse al corrente e, inoltre, con modalità costituenti chiaramente artifici e pressioni indebite». Né, come visto, ricorrono i presupposti per la deroga contenuta nell'articolo 2 del Codice che autorizza il giornalista a non rendere nota la finalità della raccolta dei dati personali quando «ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l'esercizio della funzione informativa».
«La funzione informativa - argomenta la Corte - può essere ugualmente esercitata infatti anche senza ricorrere alle modalità usate nella specie, cioè evitando la ripresa occulta e la messa in onda delle immagini dell'intervistato, a meno che non fosse proprio questa l'unica finalità dell'intervista, cosa che confermerebbe allora l'illecito contestato».
Il danno risarcibile, dunque, è quello «all'integrità della sfera personale» compromessa «per essere i suoi dati stati trattati per scopi non espliciti né legittimi e in violazione dei parametri legali della correttezza, pertinenza e proporzionalità, a norma dell'art. 11, comma 1, lett. a), b) e d) del codice». Né, infine, conclude l'ordinanza, «sarebbe possibile invocare la maggiore latitudine dell'esercizio del diritto di cronaca riferibile al giornalismo di inchiesta, dovendo anch'esso ispirarsi ai criteri etici e deontologici dell'attività professionale del giornalista e trovando comunque applicazione il limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo perseguito di denuncia sociale o politica».
Fonte: Il Sole 24 Ore