Il commento su Facebook dell'insegnante non lede la privacy dello studente
La mera circostanza della pubblicazione su un social network di un commento ritenuto offensivo non è di per sé idonea a dimostrare l'avvenuta lesione del diritto della persona a mantenere integra la propria reputazione, in assenza della dimostrazione dell'esistenza di un danno effettivamente patito. A tale conclusione è giunto il Tribunale di Bari con la sentenza n. 3767/2021, giudicando su un caso alquanto singolare.
I fatti - Protagonista della vicenda sottesa alla decisione è uno studente maturando di un liceo scientifico, il quale era finito suo malgrado al centro dell'attenzione a causa di un utilizzo poco attento di Facebook da parte della sua professoressa di italiano. Questa, infatti, nel corso di una conversazione visibile ad altri utenti, rivolgendosi ad una collega, si lamentava della grafia dello studente, ritenuta pessima, e sottolineava come lo stesso alunno fosse stato "beccato con fotocopie mini durante la prova scritta" di filosofia. Tale conversazione veniva letta sostanzialmente da tutta la scuola, sicché il ragazzo, ritenendo di aver subito una ingiusta gogna mediatica, con lesione del suo diritto alla privacy e alla propria immagine personale, citava in giudizio la docente, la scuola e il Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca.
Il nesso di occasionalità necessaria - Il Tribunale si sofferma, in primo luogo, sulla legittimazione passiva del Ministero, da quest'ultimo contestata, concentrandosi sull'evoluzione giurisprudenziale in tema di nesso di occasionalità necessaria tra il comportamento posto in essere dall'agente e le incombenze affidategli ai fini della sussistenza della responsabilità ex articolo 2049 cod. civ.. Ebbene, per il giudice la legittimazione sussiste in quanto il commento asseritamente offensivo che la professoressa aveva scambiato con la collega, visibile sul social network da una più ampia platea di conoscitori, originava «dalla correzione dei compiti svolti in classe dagli alunni (e dunque da una delle attività cui l'insegnante è specificamente preposta)», sicché il medesimo, «pur non costituendo esercizio della funzione educativa, propria dell'insegnante, aveva trovato nell'attività didattica la sua occasione necessaria, in difetto della quale non si sarebbe nemmeno potuto esorbitare dai limiti del corretto esercizio della funzione pubblica».
Nessun risarcimento senza la prova del danno - Ciò posto, il giudice ritiene di non accogliere la domanda risarcitoria dell'alunno, in sostanza perché questi non ha fornito alcuna prova dell'esistenza di un danno da lui subito a causa del comportamento dell'insegnante. Ebbene, lo studente non ha innanzitutto dimostrato il "luogo informatico" della pubblicazione del commento ritenuto offensivo, essendo incerto se ciò sia avvenuto nella bacheca pubblica o in un gruppo chiuso, né ha dato prova poi delle modalità di diffusione dello scambio di battute della professoressa con la collega. Nello specifico poi, sottolinea il Tribunale, l'aver copiato la prova di filosofia è argomento già conosciuto dai compagni di classe, mentre «la divulgazione della informazione circa la pessima grafia dell'alunno non costituisce un fatto così significativo da determinare una lesione ingiustificabile della privacy».
Inoltre, conclude il giudice, il danno alla sua reputazione non è stato dimostrato ed essendo tale pregiudizio un danno-conseguenza «non può ritenersi sussistente in re ipsa». Anzi, chiosa il Tribunale, dall'escussione dei testi è emerso che il ragazzo dopo l'episodio contestato non ha avuto ripercussioni sui rapporti sociali di classe, né tantomeno ha subito un calo di rendimento scolastico.
(Fonte: Il Sole 24 Ore del 28 marzo 2022- di Andrea Alberto Moramarco)