Dati in vendita? Il rischio è rendere i diritti negoziabili
Attorno al tema della valorizzazione economica dei dati personali, negli ultimi mesi, si è sviluppato un dibattito interessante e attuale, ma, per certi versi, sorprendente. In parole semplici, ci si chiede se, e a quali condizioni, si possa riconoscere un valore economico a informazioni come il nome, le abitudini di acquisto, le preferenze di navigazione, i gusti, le aspirazioni. Non sfugge a nessuno come al giorno d'oggi, le nostre vite, il business delle aziende e l'azione delle pubbliche amministrazioni hanno a che fare con la circolazione e il trattamento dei dati.
Ogni sessanta secondi nel mondo si inviano oltre 231 milioni di email, su Amazon vengono spesi 443 mila dollari, si compiono quasi sei milioni di ricerche su Google e su Meta vengono condivisi 1,7 milioni di contenuti (secondo i dati forniti da Domo e riferiti al 2022).
La sorpresa, invece, deriva dal fatto che il tema della valorizzazione dei dati personali non è affatto nuovo. Fin da quando, nel 1995, è entrata in vigore la prima normativa europea sulla privacy, la libera circolazione dei dati è stata concepita come l'altra faccia della medaglia della protezione di quei dati, proprio nell'ottica di realizzare quello spazio di libero scambio e circolazione di persone, merci, servizi e capitali che chiamiamo mercato.
L'avvento del Gdpr, il regolamento europeo sulla protezione dei dati, non ha fatto altro che confermare questa evidenza, e prevede tra le varie condizioni che legittimano il trattamento di dati personali anche l'esecuzione di un contratto, come già avveniva sotto la precedente normativa. E del resto ognuno di noi porta nel portafoglio la prova che già da tempo è possibile concludere contratti che hanno per oggetto i nostri dati. Si tratta dell'adesione ai programmi fedeltà, tramite cui si realizza lo scambio tra dati personali (informazioni sugli acquisti) e utilità economiche (prodotti, servizi, buoni spesa), che già nel 2005 sono stati al centro di uno storico provvedimento del Garante per la Privacy.
(Nella foto: Rocco Panetta, Country Leader IAPP per l'Italia)
Qual è invece il fattore che oggi crea incertezza guardando a certe tendenze di mercato? Se la valorizzazione dei dati personali è un fenomeno ammesso e disciplinato dalla normativa, quello della monetizzazione risulta, al contrario, costellato di molti e seri interrogativi. Considerare i dati personali come un prodotto da scambiare dietro il pagamento di un prezzo in denaro rischia infatti di rendere commerciabili anche tutti quei diritti, spesso fondamentali, che ciascuno di noi esercita attraverso tali dati (pensiamo, ad esempio, al diritto di voto).
È evidente allora il pericolo di discriminazioni, abusi e comportamenti contrari all'etica che potrebbe derivare se si aprisse alla monetizzazione senza le dovute cautele. Le autorità per la privacy di tutto il mondo stanno affrontando la partita della data monetization con la dovuta attenzione (su questo fronte, per il Garante italiano la sfida è al momento quella dei cookie wall). E questo è un bene. La necessità di una presa di posizione forte, condivisa e garantista dei diritti fondamentali degli individui è più che mai urgente.
di Rocco Panetta (Fonte: Il Sole 24 Ore)