Su Facebook i politici sono responsabili anche dei commenti altrui
I politici devono vigilare sulle proprie pagine Facebook e sono responsabili se permettono la diffusione di commenti di terzi che incitano all'odio o alla violenza. È vero che, in particolare durante una campagna elettorale, va garantita la più ampia libertà di espressione, ma in questa libertà non rientrano i messaggi discriminatori nei confronti di un gruppo, che hanno l'obiettivo di incitare all'odio. È la Corte europea dei diritti dell'uomo a stabilirlo con la sentenza Sanchez contro Francia depositata il 2 settembre che fornisce ai giudici nazionali e agli Stati i criteri per sanzionare chi permette la diffusione di messaggi di odio, anche senza esserne l'autore.
A rivolgersi alla Corte è stato un sindaco di una cittadina francese, candidato alle elezioni politiche per il Front National, che aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook un post sarcastico nei confronti di un europarlamentare di un altro partito.
Il sindaco non aveva rimosso un commento di un follower giudicato discriminatorio nei confronti dei musulmani. I giudici francesi avevano condannato, insieme all'autore, il sindaco “proprietario” della pagina, infliggendogli una multa di 3mila euro proprio perché non aveva rimosso il commento se non dopo 6 settimane. Di qui il ricorso a Strasburgo che, però, gli ha dato torto.
La libertà di espressione – scrive la Corte - deve essere assicurata anche nei casi di opinioni provocatorie, ma non quando i commenti hanno natura discriminatoria nei confronti di un determinato gruppo e incitano alla violenza. Un principio che vale anche durante la campagna elettorale. Poco importa che un politico pubblichi un post non discriminatorio se poi lascia sulla sua pagina un commento classificabile come incitamento all'odio.
Per la Corte, gli Stati sono tenuti a prevenire e sanzionare le espressioni che diffondono, incoraggiano, promuovono o giustificano l'odio fondato sull'intolleranza, inclusa quella nei confronti di una religione. Altro aspetto da considerare la diffusione via social media attraverso una pagina aperta al pubblico e, quindi, con capacità di diffusione enorme.
Non solo. In un contesto elettorale l'impatto di un commento razzista o xenofobo è ancora più dannoso e questo tipo di messaggi non possono essere protetti dalla libertà di espressione, né minimizzati.
Proprio per questo, per la Corte, anche se un messaggio non incita direttamente alla violenza, ma utilizza termini virulenti, deve essere considerato come hate speech se colpisce individui che appartengono a un gruppo religioso, intaccando la loro dignità.
Va preso in considerazione, poi, per Strasburgo, anche il comportamento tenuto in precedenza dall'autore della dichiarazione. È di importanza cruciale, infatti, per la Corte europea che i politici evitino di diffondere discorsi suscettibili di alimentare l'intolleranza.
Pertanto, nella condanna al politico “proprietario” della pagina Facebook, che non rimuove un commento, non c'è una violazione della Convenzione.
Fonte: Il Sole 24 Ore del 22 settembre 2021