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Lavoro: necessarie policy chiare per evitare l’effetto boomerang dei post sui social

L’utilizzo dei social media diventa ogni giorno di più un argomento critico sul posto di lavoro: la crescente sensibilità delle aziende verso le comunicazioni dei propri dipendenti, unita all’uso sempre più massiccio che questi fanno delle comunicazioni “social”, aumenta in maniera esponenziale il rischio di conflitti su questo tema. Conflitti che sono acuiti da un problema: il confine tra le condotte lecite e quelle illecite non è sempre facile da definire.

Il concetto generale che i lavoratori devono fissare – ma che troppo spesso, ingenuamente, dimenticano – è che tutto quello che viene scritto sui social, anche fuori dall’orario di lavoro, può essere usato contro di loro, se ha contenuti offensivi verso il datore di lavoro e i colleghi. Spesso i lavoratori dimenticano che i social media sono piattaforme aperte a una massa indistinta di persone (anche quando si usano filtri di accesso ai propri profili) e così, varcando il sottile confine fra libertà di espressione e dignità altrui, si espongono anche a responsabilità per possibili illeciti penali, come la diffamazione.

Un’invettiva che può generare un danno d’immagine all’azienda, un insulto di troppo al superiore, la rivelazione di fatti che dovrebbero restare riservati, sono tutti esempi di come il dipendente può essere sanzionato, sul piano disciplinare, per via di un post mal riuscito su Facebook, Twitter, LinkedIn o simili.

Il caso più frequente è quello delle offese verso l’azienda e i suoi dirigenti. La giurisprudenza sul tema ha un approccio rigoroso e poco tollerante, anche se prevale l’analisi del caso concreto; in generale, a fronte di decisioni che riconoscono la possibilità di licenziare per giusta causa chi pubblica frasi offensive verso l’azienda o i colleghi sui social, non mancano decisioni che escludono la rilevanza disciplinare delle comunicazioni che, pur avendo contenuti caratterizzati da un forte antagonismo, restano entro i limiti della satira o della critica.

Non di rado simili attriti si verificano sul campo delle relazioni industriali, dove si fa un uso sempre maggiore delle piattaforme digitali come bacheche dei lavoratori e dei rappresentanti sindacali. In questi casi si registra un approccio più cauto dei giudici, ma anche qui si cerca di distinguere tra l’esercizio del diritto di critica – assolutamente lecito e, anzi, oggetto di una tutela rinforzata per consentire l’espletamento del mandato sindacale – e la diffusione di informazioni e notizie false o di contenuto diffamatorio: in questa ipotesi, non basta la carica sindacale a salvare dal licenziamento (si veda la sentenza della Cassazione 10897/2018).

Né si può invocare, per questi casi, un diritto alla privacy: esistono sicuramente limiti precisi (si pensi agli articoli 4 e 8 dello Statuto dei lavoratori e alle regole del Regolamento generale sulla protezione dei dati), ma la giurisprudenza ha un approccio aperto ai controlli dei datori di lavoro sui profili social dei dipendenti, in presenza di determinate condizioni (si pensi alla sentenza 10955/2015 con cui la Cassazione ha convalidato il licenziamento di un dipendente sottoposto a controllo dal datore di lavoro mediante profilo fake).

Considerato che molto spesso i lavoratori hanno poca coscienza dei limiti (e dei rischi) connessi all’utilizzo dei social media, sarebbe opportuno e consigliabile elaborare delle specifiche policy aziendali, con le norme di comportamento da tenere in materia di utilizzo dei social network.

I casi visti sinora, seppure complessi, hanno sempre un’attinenza, diretta o indiretta, con il rapporto di lavoro. Ma che succede se il dipendente posta sui social media messaggi che, pur essendo particolarmente sconvenienti (testi razzisti, incitamento alla violenza o alla droga, e così via), non c’entrano nulla con il lavoro? Una risposta certa ancora non esiste, ma è probabile che la strada che seguiranno i giudici sarà simile a quanto già accade di fronte a condotte che non rilevano direttamente sul rapporto di lavoro (per esempio un dipendente viene arrestato per spaccio di droga): tali condotte possono essere contestate solo se l’impresa prova che hanno incidenza negativa sul rapporto di lavoro.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 27 febbraio 2019

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