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Il selfie con l’amante non basta all’addebito della separazione

Non basta un selfie per dimostrare l’adulterio. Nemmeno se il presunto amante viene ritratto a dorso nudo sul letto della moglie. Lo ha stabilito la Corte d’appello dell’Aquila con la sentenza 2060 del 16 dicembre scorso(presidente Buzzelli, relatore Del Bono), che ha precisato che le fotografie compromettenti si presterebbero a spiegazioni alternative. Per i giudici, infatti, se le fotografie non mostrano alcun atteggiamento intimo e di particolare vicinanza tra le parti non possono provare la relazione extraconiugale.

La causa trae origine dall’appello contro la sentenza del Tribunale di Pescara che non aveva riconosciuto l’addebito della separazione in capo alla moglie, colpevole - secondo il marito - di tradirla con l’uomo con il quale faceva costantemente selfie e fotografie ambigue.

La Corte d’appello dell’Aquila conferma la sentenza di primo grado e si allinea all’orientamento generale in tema di addebito, che riconosce la rilevanza del tradimento nelle cause di separazione solo quando sia effettivamente dimostrato e abbia avuto un ruolo determinante nella crisi coniugale.

I selfie, del resto, rientrano ormai nelle abitudini degli utenti dei social network e, secondo i giudici, non possono di per sé dimostrare un rapporto intimo con la persona con la quale vengono scattati. Né rappresentano un’offesa alla dignità dell’altro coniuge.

La Cassazione si è pronunciata spesso sulla rilevanza delle fotografie pubblicate sui social network ai fini dell’addebito della separazione. Può rilevare anche il sospetto di adulterio, ma solo quando comporti un’offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge.

A prescindere dal riconoscimento dell’addebito, può dar luogo a un illecito civile cambiare il proprio status su Facebook da “sposato” a “separato” quando la causa è ancora in corso perché si tratta di una condotta che lede pubblicamente la dignità e la reputazione del coniuge (sentenza 2643 del Tribunale di Torre Annunziata del 24 ottobre 2016). Il dovere di fedeltà che deriva dal matrimonio può essere risarcito per danni non patrimoniali in base all’articolo 2059 del Codice civile, sempre che la sofferenza indotta nel coniuge tradito si traduca in uno sconvolgimento emotivo tale da incidere sulla salute o sulla sua dignità personale.

Tuttavia, negli ultimi anni il diritto al risarcimento da tradimento nel nostro ordinamento è stato di molto ridimensionato, visto che «il fallimento di una relazione è evento che può considerarsi normale in quanto assai frequente nel verificarsi» e che nessun rapporto «neppure quello coniugale può dirsi indissolubile» (Tribunale di Pavia, sentenza 1160 del 2 luglio 2019).

Così, nemmeno fotografie o commenti espliciti pubblicati su Facebook danno luogo al risarcimento del danno in capo al coniuge tradito se la sofferenza causata non viene provata. Né sono causa di addebito se non si può dimostrare che siano stati determinanti per la rottura della relazione (Tribunale di Velletri, sentenza 90 del 23 gennaio 2019).

Niente addebito neppure se il tradimento è reciproco. È successo a una coppia della provincia di Cosenza che si rinfacciava a vicenda storie di adulteri scovate su Facebook. Per i giudici, essendo stato violato da entrambe le parti l’obbligo di fedeltà, nessuno può recriminare all’altro di essere stato la causa della fine del rapporto (Corte d’appello di Catanzaro, sentenza 53 del 2 dicembre 2019).

Nei casi ritenuti più gravi però il tradimento può anche far revocare le donazioni in favore del coniuge adultero. Il fatto viene ritenuto grave quando, nei centri medio-piccoli, ci si fa vedere in pubblico con l’amante in atteggiamenti inequivoci. Oppure quando si postano sui social network - luoghi pubblici a tutti gli effetti – fotografie in atteggiamenti amorosi, che però devono essere inequivoci, con persona diversa dal coniuge. Insomma, tutte le volte in cui la relazione extraconiugale viene attuata senza ritegno, divenendo oggetto di pettegolezzo e di scherno, essendo nota a parenti e amici (Tribunale di Lecce, sentenza 1159 del 26 marzo 2018).

Fonte: Il Sole 24 Ore del 20 gennaio 2020

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