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Il detective senza regolare licenza che si finge cliente fa comunque licenziare il lavoratore che abusa del congedo parentale

Un collaboratore di un investigatore privato, senza licenza e senza mandato scritto si è finto cliente ottenendo le prove per il licenziamento di un dipendente infedele. Fondamentale sollevare le eccezioni di illecito trattamento dei dati personali per ottenere la inutilizzabilità delle prove. L'importanza del provvedimento del Garante Privacy n. 60/2008 (GU 275/08).

La vicenda - Un uomo chiede ed ottiene dall'azienda per la quale lavora il congedo parentale retribuito, vale a dire quel permesso che consente al padre lavoratore - attraverso la propria presenza - di dedicare tempo ed energie al soddisfacimento dei bisogni affettivi del minore. Il datore di lavoro ha notizia, però, che l'uomo stia svolgendo un'altra attività lavorativa, ed incarica un investigatore privato di eseguire i relativi accertamenti. Dagli stessi emerge lo svolgimento di un lavoro remunerato, né saltuario né episodico, svolto presso un concessionario di autovetture gestito da una società della quale è egli stesso amministratore. Ragione per cui l'azienda procede al licenziamento.

Il merito - Il lavoratore ricorre dapprima in tribunale e poi in appello, ma in entrambe le circostanze i giudici confermano la legittimità del massimo provvedimento sanzionatorio. La condotta del dipendente, infatti, si configura quale abuso del diritto al congedo parentale per sviamento della relativa funzione, circostanza che giustifica la sanzione espulsiva venendo meno in rilievo un comportamento contrario ai principi di correttezza e buona fede. L'uomo ricorre quindi per Cassazione, sostenendo l'irregolarità delle investigazioni svolte.

Il ricorso in Cassazione - L'uomo ha lamentato che le sentenze in questione non hanno tenuto conto dell'obbligo, da parte dell'investigatore privato, di svolgere personalmente l'investigazione, con espresso divieto di impiegare collaboratori, come riportato sulla licenza di polizia; l'assenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il collaboratore e la società investigativa; la mancanza di un incarico scritto conferito dall'azienda all'agenzia investigativa; la durata dell'accertamento, di soli 4 giorni, vale a dire di un periodo molto ridotto rispetto a quello in cui ha fruito del permesso in questione.

L'analisi della Cassazione - La sentenza si fonda sulla relazione scritta dell'investigatore e sulla deposizione dell'autore delle indagini, mai smentite dal ricorrente o da altri testimoni.

Le asserite violazioni delle prescrizioni della licenza, quand'anche esistenti, sono del tutto irrilevanti. Scrivono i giudici: "L'accertamento dei fatti riposa su quanto riferito, per diretta conoscenza, da parte del collaboratore dell'agenzia, escusso quale teste, a conferma delle risultanze della relazione investigativa". Egli "fintosi allora un cliente della concessionaria presso la quale operava il M, aveva riferito di aver appurato tutte le circostanze segnalate nel documento". Quanto appreso direttamente dal teste "non potrebbe comunque essere inficiato da eventuali vizi o carenze in tesi verificatisi nel rapporto tra X Spa e l'agenzia investigativa o tra quest'ultima e l'autorità amministrativa". Ciò a significare che la testimonianza diretta resta a prescindere dall'esistenza del titolo.

Secondo i giudici della Suprema Corte, "eventuali carenze sul piano amministrativo" non sono sufficienti "ad inficiare la valenza probatoria degli elementi sulla base dei quali i giudici di merito hanno ritenuto accertato il fatto addebitato".

Ed il numero di giorni in cui è stato eseguito il controllo, soltanto quattro rispetto all'intero periodo di fruizione del congedo parentale, è sufficiente per presumere la sistematicità del comportamento.

Come ottenere l'inutilizzabilità dei dati - I dati personali raccolti e trattati, ovvero le informazioni e prove reperite in violazione della normativa sulla privacy, sono inutilizzabili ai sensi dell'articolo 11, comma 2, d.lgs. 196/2003, così come sostituito dall'articolo 2-decies del d. lgs. 101/2018 contenente identica formulazione, con l'unica aggiunta di quanto previsto dall'art. 160bis d. lgs. n. 196/03. Infatti, "sul piano processuale tale norma preclude non solo alle parti di avvalersi dei predetti dati come mezzo di prova, ma pure al giudice di fondare il proprio convincimento su fatti dimostrati dal dato acquisito in modo non rispettoso delle regole dettate dal legislatore e dai codici deontologici" (cfr. Cassazione 28378/2023).

Trova pertanto applicazione l'articolo 11 d.lgs. n. 196/2003 nella sua formulazione originaria ed assoluta, ossia senza limiti né clausole di salvezza, giacché deve ritenersi che il legislatore abbia inteso imporne un'accezione rilevante sia in sede processuale sia in sede extraprocessuale. Scrivono infatti i giudici che "la tesi, pur sostenuta da parte della dottrina, secondo cui la disciplina del trattamento dei dati sarebbe (anche prima della novella del 2018) irrilevante nell'ambito del processo civile, che resterebbe soggetto alle regole sue proprie, non può essere condivisa. La sua conseguenza, infatti, sarebbe l'utilizzabilità di quei dati sia dalle parti per adempiere i propri oneri probatori, sia dal giudice per la sua decisione. Ma in tal modo si finirebbe per porre l'ordinamento in contraddizione con sé stesso, poiché da un lato qualificherebbe quel trattamento dei dati come illecito, dall'altro permetterebbe la produzione di quei dati in un giudizio civile, ossia una diffusione altrimenti vietata, ed inoltre consentirebbe alla parte di trarre in tal modo vantaggio da un'attività illecita (con pericolosi effetti incentivanti di tale illecito), ciò che è contrario ai principi generali, fra i quali quello del giusto processo ex art. 111 Cost.".

Pertanto, l'articolo 11 d.lgs. n. 196/2003, nella sua formulazione originaria, va inteso nel senso assoluto di cui si è detto (cfr. Cassazione 28378/2023). Infatti, la ratio generale della norma è di scoraggiare la ricerca, l'acquisizione e più in generale il trattamento abusivo di dati personali e, per realizzare questa funzione, il rimedio previsto dal legislatore è quello di impedirne la realizzazione dello scopo.

Il finto cliente - Il collaboratore dell'investigatore privato, nel fingersi cliente, ha violato il comma 1 dell'articolo 9 del Provvedimento numero 60/2008 (modificato dal d.lgs. 101/2018) emanato dal Garante Privacy proprio in materia di investigazione privata, sia perché ha acquisito dati personali direttamente dall'interessato senza fornire l'adeguata informativa, sia perché ha posto in essere prassi elusive di obblighi e di limiti di legge, circostanza specificatamente vietata dalla norma. Il Garante si è già espresso in un caso simile, dichiarando l'illecito trattamento dei dati personali da parte di un investigatore che aveva interloquito con un interessato senza fornire l'informativa, e presentandosi come un cliente desideroso di un preventivo (cfr. provvedimento Garante Privacy doc web n. 9779119).

La mancanza dell'incarico scritto - L'articolo 8 comma 2 del citato Provvedimento n. 60/08, prevede che l'investigatore privato possa eseguire investigazioni "esclusivamente sulla base di apposito incarico conferito per iscritto". Anche con riferimento a questa violazione il Garante ha già riconosciuto l'illegittimo trattamento dei dati personali a seguito di un conferimento d'incarico verbale (cfr. provvedimento Garante Privacy doc web n. 9924466). Violazione della quale rispondono sia il soggetto che conferisce l'incarico (per aver diffuso i dati personali dell'interessato), sia l'investigatore per averli trattati (ed a sua volta eventualmente diffusi) senza titolo.

La sentenza - In base all'art. 2-quater, comma 4, del Codice, "il rispetto delle disposizioni contenute nelle regole deontologiche di cui al comma 1 costituisce condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali". In mancanza di un reclamo al Garante finalizzato ad ottenere la dichiarazione di illecito trattamento dei dati personali, e poiché la parte non ha sollevato la questione di utilizzabilità chiedendo l'applicazione dei riferimenti normativi sopra indicati, i giudici della Suprema Corte, con la sentenza numero 2618 del 4 febbraio 2025, hanno confermato il licenziamento, condannando il ricorrente al pagamento delle spese legali e al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

di Andrea Pedicone (fonte: Studio Cataldi)

Note sull'Autore

Andrea Pedicone Andrea Pedicone

Consulente investigativo ed in materia di protezione dei dati personali, Auditor/Lead Auditor Qualificato UNI CEI EN ISO/IEC 27001:2017 Sistemi di Gestione per la Sicurezza delle Informazioni, socio membro Federprivacy.

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