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Cassazione: la privacy dei colleghi cede il passo alla difesa

Gli obblighi di riservatezza che gravano sui lavoratori ai sensi dell’articolo 2105 del Codice civile, nonché secondo i principi generali di buona fede e correttezza, assumono rilevanza anche con riferimento al diritto dei colleghi alla riservatezza all’interno del posto di lavoro, la cui tutela è demandata al datore di lavoro. Su questo punto, la giurisprudenza è stata spesso chiamata a pronunciarsi sulla legittimità o meno della condotta dei dipendenti che, per difendersi in giudizio, registrino occultamente le conversazioni intercorse con o tra colleghi senza aver prima chiesto il loro consenso.

In queste ipotesi l’operazione condotta dai giudici è rivolta al contemperamento di due distinte tutele: si tratta di far coesistere infatti le esigenze di difesa del lavoratore – tutelate dallo stesso Codice della privacy, che all’articolo 24, comma 1, lettera f), prevede la possibilità di prescindere dal consenso dell’interessato qualora il trattamento dei dati sia finalizzato a far valere un diritto – e la tutela del diritto alla riservatezza dei soggetti le cui conversazioni vengono acquisite e utilizzate nel corso di un giudizio senza aver prima acquisito la loro autorizzazione.

Secondo le pronunce della giurisprudenza di legittimità sul punto, il discrimine tra la legittimità o illegittimità di tale registrazioni e, quindi, tra rilevanza disciplinare o meno di tale condotta, deve essere valutato alla stregua:

1) delle modalità di apprensione e trattamento dei dati;

2) delle finalità di tale trattamento.

Quindi, come recentemente affermato dalla Corte di cassazione, con la decisione n. 11322 del 10 maggio 2018, deve ritenersi legittima la condotta del dipendente che ha occultamente registrato delle conversazioni con dei colleghi effettuate sul posto di lavoro, poi utilizzate in giudizio, perché, da una parte, il relativo contenuto era strumentale e strettamente attinente al diritto fatto valere in giudizio – in quanto le registrazioni erano state effettuate per tutelare la propria posizione dentro l’azienda e per precostituirsi dei mezzi prova altrimenti non reperibili – e, dall’altra, il dipendente aveva adottato tutte le cautele necessarie per evitarne la diffusione.

Al contrario, è stato ritenuto illegittimo il comportamento del lavoratore consistente nella registrazione occulta di conversazioni tra altri dipendenti, poiché queste erano state intenzionalmente effettuate nel «disinteresse al rispetto dei doversi di riservatezza» e non erano idonee a provare l’asserita condotta di mobbing del datore di lavoro (Corte di cassazione, 16 maggio 2018, n. 11999).

In queste ipotesi, la valutazione della legittimità della condotta dal lavoratore dovrà tenere in considerazione non solo la possibilità, garantita dalle disposizioni del Codice sulla privacy, di non acquisire il consenso degli interessati per finalità di difesa ma anche gli interessi dei colleghi di lavoro, la cui privacy viene così violata, dovendosi dare necessario rilievo a interessi ulteriori, quale quello di garantire un sereno e non conflittuale ambiente di lavoro (si veda sul punto la sentenza n.26143 della Corte di cassazione).

Fonte: Il Sole 24 Ore del 2 luglio 2018

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