Usare i titoli di cortesia viola la privacy: per rispettare il GDPR meglio essere maleducati
Dai conti pubblici al lavoro, dall’ambiente ai servizi, dal demanio alle imprese, e anche sugli alimenti e sull’abbigliamento, in Italia siamo ormai abituati da anni a sentirci dire che dobbiamo fare riforme o modernizzare il nostro ordinamento perché “ce lo chiede l’Europa”, e ora l’UE ci chiede persino di abbandonare il tradizionale bon ton per rispettare la privacy.
Secondo una discutibile sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Cgue) del 9 gennaio 2025, d’ora in poi le aziende dovrebbero infatti smettere di usare gli appellativi di cortesia “signora” e “signor” perché violerebbero il principio di “minimizzazione” dei dati previsto dal GDPR, secondo cui non bisogna esagerare con la richiesta di dati personali degli interessati, ma limitarsi a raccogliere le informazioni strettamente necessarie a gestire il servizio o il prodotto richiesto.
Così, mentre i social media sanno tutto di noi, chi siamo, cosa ci piace, dove andiamo, cosa mangiamo, chi sono i nostri amici, il nostro orientamento sessuale, quello politico, l’appartenenza religiosa, e addirittura cercano di profilare anche le nostre idee e le nostre intenzioni più intime che neanche abbiamo realizzato, arrivano i supremi giudici che sfornano una decisione draconiana per ricordarci che, siccome la privacy è un diritto fondamentale, anche quando compriamo un semplice biglietto del treno, la società ferroviaria dovrebbe giammai permettersi di ficcare il naso nella nostra sfera privata chiedendoci di selezionare con un click il titolo di cortesia da inserire poi nello stesso titolo di viaggio o nella mail di conferma che ci invia quando effettuiamo l’acquisto online.
E pensare che il caso era arrivato alla suprema corte europea, perché la Mousse, un’associazione di attivisti per la difesa dei diritti LGBT+ aveva presentato un reclamo al garante della privacy francese per contestare che quegli appellativi come “Sig.” e “Sig.ra” avrebbero violato la privacy sull’identità di genere degli interessati, e nonostante il consueto rispetto e la massima considerazione che l’autorità d’oltralpe ha da sempre mostrato per tutte le minoranze, in quella occasione non si era sentita di accogliere tale richiesta, rimandando invece la decisione finale ai giudici dell’UE, da cui probabilmente sperava uscisse un verdetto salomonico che avrebbe potuto soddisfare tutte le parti interessate.
(Nella foto: Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy)
E invece la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha estratto dal cilindro una decisione che lascia non poco disorientati, perché nella sentenza nella nella causa C-394/23 ammette che tecnicamente i titoli di cortesia “signora” e “signor” non sono effettivamente così indispensabili da conoscere per chi ti vende un biglietto, e allora questi non dovrebbe più chiederci di poterlo indicare.
Alla luce di questa sentenza, le aziende che usano tali titoli, d’ora in poi dovrebbero quindi smettere di farlo per non esporsi al rischio di prendersi maxi sanzioni fino a 20 milioni di euro o fino al 4% del loro fatturato.
Quindi, non ci sarà da meravigliarsi se quando l’azienda ferroviaria o un’altra società da cui compriamo dei biglietti ci sembrerà un po' maleducata omettendo qualsiasi titolo di cortesia o altro riferimento che possa far capire la nostra identità di genere, perché in realtà lo farà “per rispettare la privacy”.
di Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy (Economy Magazine)