Usa: non entra chi ha amici sbagliati su Facebook
Lascia interdetti la notizia che rimbalza dalle colonne del “The Harward Crimson”, il quotidiano dell’Università di Harward, fondato del 1873. Uno studente palestinese che, nei prossimi giorni, avrebbe dovuto iniziare a seguire i corsi di uno dei più prestigiosi college americani è stato respinto alla frontiera americana, all’aeroporto di Boston dopo che gli agenti della dogana, navigando nei suoi profili social attraverso il suo smartphone, hanno trovato alcuni post critici contro la politica USA pubblicati da alcuni contatti del ragazzo.
Inutili – a quanto riporta il Crimson – le contestazioni dello studente che ha provato a eccepire di non aver mai pubblicato alcun contenuto di matrice politica e di non poter esser chiamato a rispondere per ciò che hanno postato dei suoi contatti su Facebook.
Gli agenti dell’ufficio immigrazione americano sarebbero stati irremovibili nel bollare il giovane come un soggetto a rischio, non gradito sul suolo statunitense.
L’episodio sembra una prima immediata conseguenza della nuova – anche se di origini antiche – politica americana per effetto della quale, da giugno, chi vuole entrare negli USA, viene richiesto di condividere con le Autorità anche i propri profili social.
Sin qui, tuttavia, si era ipotizzato che l’analisi dei canali social degli aspiranti visitatori servisse – e l’idea aveva già sollevato un vespaio di polemiche – per determinare la personalità del richiedente il visto sulla base della propria condotta sui social e non già anche di quella dei propri contatti.
Se confermato l’episodio è preoccupante e proietta un cono d’ombra sulla sostenibilità democratica della nuova politica USA.
Già l’idea di passare al setaccio la vita sui social del milione e mezzo di visitatori che ogni anno sbarcano oltre-oceano solleva non poche perplessità sotto il versante privacy, ma quella di bollare una persona come non gradita in ragione di quello che un qualsiasi suo “amico” su Facebook o follower su Twitter ha scritto o condiviso sembra davvero inaccettabile.
È, evidentemente, incompatibile con la tutela dell’identità personale di un individuo considerarlo a rischio, pericoloso o, semplicemente non gradito, non già per qualcosa che ha scritto, detto, fatto o condiviso ma per la condotta di un terzo con il quale potrebbe avere una “relazione” esclusivamente casuale, occasionale, indiretta e, persino, involontaria come spesso accade per i contatti sui social.
Si tratta, comunque, di un episodio che non andrebbe fatto passare sotto silenzio perché quello statunitense potrebbe. In fretta, diventare uno standard e generare emuli e imitatori in decine di altri Stati.
Già è dubbio che ciascuno di noi sia chi appare sui social, ma, per certo, non siamo quello che scrivono i nostri contatti social.
Fonte: L'Espresso - Articolo di Guido Scorza