Ora i social e le app vanno a caccia dei dati sulla nostra salute mentale
Negli ultimi tempi social e app hanno iniziato a mostrare un insolito interesse per i dati personali sulla salute mentale degli utenti, e presumibilmente non lo fanno perché si interessano del nostro benessere psicofisico e neanche per la ricerca scientifica in campo medico, ma piuttosto perché sono informazioni che possono essere molto preziose per i loro scopi.
Per capire quanto siano diventati appetibili tali dati, basti pensare alla ricerca condotta dalla Sanford School of Public Policy della Duke University, in cui 11 broker dei 37 interpellati hanno offerto database di dati sulla salute mentale a blocchi di 5.000 utenti al prezzo di 275 dollari cadauno, e composti da liste di nominativi di persone classificate in base al problema mentale diagnosticato, tra cui “depressione, disturbo bipolare, problemi di ansia, disturbo di panico, disturbo da stress post-traumatico, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo della personalità”.
Non c’è quindi da sorprendersi se spesso i social ci chiedono “a costa stai pensando?”, e del resto gli stessi giganti della tecnologia non stanno neanche nascondendo di stare studiando come riuscire a leggere, o quantomeno decifrare i nostri pensieri.
In attesa di riuscirci, è comprensibile quindi che cerchino di anticipare i tempi utilizzando gli strumenti che possono avere a disposizione al presente, come appunto le informazioni su test psicologici, il nostro stato d’animo, le nostre ansie, e varie analisi della nostra salute mentale.
Purtroppo non tutti gli utenti nutrono diffidenza nel fornire online informazioni confidenziali senza sapere esattamente chi ci sia dall’altra parte, come nel caso dell’app di telemedicina Cerebral, tramite la quale i pazienti pensavano di raccontare i loro traumi e i loro disagi solo allo psicologo, quando in realtà le informazioni venivano condivise con social media come Facebook, TikTok, e anche Google.
Perciò non c’è da meravigliarsi neppure che i dati sulla salute mentale vengano rastrellati sul web in modo non trasparente o addirittura illecito, come nel recente caso in cui la Federal Trade Commission (FTC) ha imposto alla BetterHelp (che offre supporto psicologico online) di sborsare un risarcimento di 7,8 milioni di dollari da pagare agli stessi consumatori per aver condiviso i loro dati sensibili con le piattaforme social.
Ci sono sicuramente motivi plausibili perché app e social stiano andando a caccia dei dati sulla nostra salute mentale:
innanzitutto, se riescono a sapere cosa pensiamo, quelle informazioni possono fare gola per finalità di marketing, perché la pubblicità è fatta di persuasione, e se chi progetta una campagna promozionale conosce i nostri stati d’animo (e anche le nostre debolezze e le nostre vulnerabilità) potrà quindi realizzare una comunicazione molto più efficace e penetrante rispetto ad una strategia basata “solo” sulla profilazione dei nostri gusti e delle nostre preferenze.
(Nella foto: Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy)
C’è però anche il rischio che queste informazioni sulle nostre condizioni psicologiche vengano utilizzate per condizionare le nostre opinioni, e non solo per convincerci a comprare un certo prodotto, ma magari anche per influire sulle nostre intenzioni di voto in occasioni di elezioni politiche, oppure per influenzarci su certi temi sociali su cui potremmo cambiare gradualmente opinione senza neanche accorgercene, arrivando ad accettare quello che per noi fino a poco tempo prima era inaccettabile e viceversa.
E poi c’è il tema dell’intelligenza artificiale, che per essere implementata ha bisogno di tonnellate di immagini e informazioni. Implementare i sistemi di intelligenza artificiale allenando gli algoritmi con le informazioni sulla salute mentale degli utenti può rappresentare sicuramente un valore aggiunto per raggiungere l’obiettivo di leggere o decifrare il pensiero delle persone.
A norma di GDPR i dati sulla salute mentale (a parte alcune eccezioni in ambito terapeutico) potrebbero essere trattati solo con il nostro esplicito consenso, e dopo che chi ce li chiede ci ha informato in modo consapevole sulle finalità per cui intende usarli.
Quindi, è fondamentale che leggiamo bene le informative sulla privacy, e in ogni caso che valutiamo bene se la app o il sito web che ci sta chiedendo informazioni sulla nostra salute mentale ha davvero la nostra fiducia per raccontare delle cose che normalmente racconteremmo nel privato dello studio del nostro professionista di fiducia.
di Nicola Bernardi (Nòva Il Sole 24 Ore)