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È legittimo il licenziamento del dipendente che ha pubblicato plurimi insulti ai suoi capi sulla propria pagina Facebook. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 27939/2021, respingendo il ricorso di un account manager di Tim. Confermata dunque la decisione della Corte di appello di Roma che nel novembre 2018, aveva respinto il ricorso contro il licenziamento "per giusta causa" di un addetto alla "Gestione della comunicazione pubblicitaria nazionale ad uso locale" (insegne della grande distribuzione, eventi, promozione locale dei negozi).

La qualifica di sindacalista non salva il dipendente dal licenziamento per le espressioni lesive della reputazione dell’azienda pubblicate sul suo profilo Facebook aperto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 35922/2023.

Licenziamento disciplinare del dipendente che cede a terzi le proprie credenziali per l'accesso al sistema informatico dell'Amministrazione per effettuare revisioni di veicoli con esito positivo mai avvenute nella realtà. Il provvedimento. Questo il contenuto della sentenza n. 27960/2018, che di fatto ha respinto l'appello della lavoratrice.

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Legittimo il licenziamento del dipendente Inps che accede illegittimamente alla banca dati per conoscere conti e posizioni degli iscritti. Lo ha deciso la Cassazione con sentenza 7272 del 19 marzo 2024.

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Il licenziamento disciplinare intimato dalla società al proprio dipendente per condotte apprese mediante investigazione privata è nullo se dal provvedimento di espulsione non viene resa nota l'identità del soggetto che in concreto ha svolto l'attività investigativa.

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L’utilizzo dei dati raccolti a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro - inclusi, dunque, quelli disciplinari - è subordinato alla diffusione di un regolamento nell’ambito del quale i lavoratori sono informati sulle «modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli».

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Chattare via Facebook sul telefonino aziendale svelando segreti d’impresa costa la perdita del posto di lavoro. E per una dipendente non proprio zelante non c’è privacy che tenga. È successo a Bari, dove il Tribunale ha prima deciso che il datore di lavoro poteva utilizzare in giudizio gli screenshot dei messaggi privati della signora e - in base al contenuto di questi - ha poi ritenuto legittimo il suo licenziamento.

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L’approvazione definitiva da parte del Parlamento Europeo del Regolamento sull’intelligenza artificiale (“AI Act”) rappresenta un passaggio istituzionale decisivo verso la predisposizione di un quadro normativo uniforme per lo sviluppo, l’immissione sul mercato, la messa in servizio e l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nell’ambito dell’Unione Europea.

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L’uso disinvolto dei social media e dei sistemi di messaggistica digitale (WhatsApp, Telegram e simili) può portare in alcuni casi fino al licenziamento. I lavoratori troppo spesso dimenticano questo concetto. Tutto quello che viene scritto sui social, però, anche fuori dall’orario di lavoro, può essere usato in sede disciplinare, se ha contenuti offensivi verso il datore di lavoro e i colleghi, soprattutto quando questi contenuti sono indirizzati a una massa indistinta di persone.

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Una volta designato o autorizzato un subordinato a svolgere determinati compiti connessi al trattamento dei dati personali, fino a che punto rimane responsabile il Titolare ovvero, fino a che punto l’assunzione di compiti e funzioni fa il paio con l’assunzione di profili di responsabilità? Esistono (e se sì, con quali limiti) ambiti di rivalsa del Titolare nei confronti del subordinato a fronte di una condanna ricevuta dal primo a seguito di un accertamento di responsabilità del sottoposto?

25 maggio 2023: il Privacy Day Forum al CNR di Pisa nel giorno del 5° anniversario del GDPR

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