Social network, è inutile privatizzare il profilo
I social network sono “luoghi pubblici” e non serve privatizzare il profilo, rendendolo visibile soltanto a una cerchia ristretta di utenti, per renderne riservati i contenuti. La privacy non c’entra: tutto quello che viene pubblicato online, se rilevante per il giudizio, può essere valutato dal giudice, a meno che non sia stato acquisito in maniera illecita, ad esempio forzando le password di accesso.
A livello giuridico non c’è differenza fra profilo pubblico e privato perché, ragionano i giudici, anche un profilo privato può essere rilanciato e diffuso da ciascuno dei contatti dell’utente, rendendo potenzialmente illimitato il numero dei destinatari dei messaggi pubblicati (Corte di appello di Torino, sentenza 599/2017).
Così c’è il lavoratore che rivela al superiore l’offesa pubblicata su Facebook dal collega o la fonte anonima che stampa lo screenshot e lo recapita al destinatario. A tradire l’utente possono essere gli stessi “amici” o i profili esca creati per accedere alle informazioni rese visibili soltanto ai propri contatti. Spesso le richieste di amicizia fittizie arrivano proprio dal datore di lavoro, legittimato per la Corte di cassazione ad usare le informazioni ottenute dopo aver avuto accesso a una pagina chiusa.
Eppure neanche le sentenze sfavorevoli frenano il bisogno di visibilità degli utenti, che riversano sui social network pettegolezzi, sfoghi, dati sensibili.
Sempre più testimoni in giudizio rivelano il contenuto delle bacheche social altrui, facendo emergere il sospetto di redditi non dichiarati, adulteri, finte malattie.
Nei ricordi degli “amici” riemergono foto rimosse, contenuti cancellati, tracce di fatti ed episodi puntualmente riferiti in giudizio.
Il numero di amici o follower rileva però per la quantificazione del danno, soprattutto nei casi di diffamazione, in cui il giudice sarà chiamato a valutare la diffusione del post denigratorio. Un profilo pubblico ha una pervasività maggiore, essendo visibile a un numero indeterminato di persone, più ristretta invece la visibilità di un contenuto privato, che darà quindi luogo a un risarcimento minore.
Fonte: Il Sole 24 Ore del 13 agosto 2018