Sì all'accertamento della paternità dai campioni biologici acquisiti dal Ctu in ospedale
Legittimo acquisire campioni biologici presso l'ospedale al fine di accertare la paternità naturale. La persona della quale si vuole accertare la paternità non può contrastare l'azione di chi sostiene di esserne figlio perché non sarebbero utilizzabili i propri dati sanitari senza a autorizzazione. A norma del Codice della Privacy, come spiega la Cassazione con la sentenza n. 8459 del 5 maggio 2020, è infatti possibile "a fini di giustizia" superare il divieto di accesso e utilizzo dei dati sensibili.
Il consulente tecnico d'ufficio nominato dal giudice può - proprio perché nell'ambito di un processo - acquisire i dati sanitari del presunto padre a seguito della domanda di accertamento di chi aspira a vedersi riconosciuto nella qualità di figlio naturale.
La prova genetica - Nel caso specifico, il Ctu aveva acquisito addirittura dei campioni biologici conservati presso due nosocomi al fine di analizzarli. E da tale esame era risultata una compatibilità al 99,99%. Ma la difesa del padre naturale, in chiave contestativa della filiazione, si era scagliata contro tale acquisizione non solo perché non autorizzata dal diretto interessato sottoposto ad accertamento giudiziale, ma anche perché - affermava - i dati sanitari non potrebbero essere conservati.
La Cassazione chiarisce che la sensibilità delle informazioni relative alla salute non impedisce che queste siano per legge dello stato conservate a fini statistici o di studio, da che discende l'inesistenza di un obbligo di distruggerli. Ma soprattutto, come già detto, è l'utilizzo strettamente connesso a esigenze di giustizia che rende acquisibili i dati in questione. E l'ordine del giudice è sufficiente all'acquisizione da parte del Ctu. Priva di pregio - secondo la Cassazione - anche la lamentela secondo cui il Ctu non avrebbe personalmente esaminato il materiale acquisito. Infatti, il fatto che l'esame tecnico di analisi dei materiali biologici sia stato effettuato per mano di terzi specialisti non esclude - dice la sentenza - che la prova sia acquisita sotto il controllo del consulente d'ufficio.
La domanda riconvenzionale del padre - L'erede di colui che era stato riconosciuto padre naturale ha proseguito la vicenda processuale continuando non solo a contrastare la legittimità delle prove dimostrative, ma anche a proporre in via riconvenzionale la domanda di risarcimento del danno per il fatto di essere stato privato del diritto alla propria paternità dal comportamento omissivo della madre a comunicargli l'evento della gravidanza e della nascita per lunghissimi anni. Sul punto la Cassazione nega che la generica affermazione di responsabilità della donna che tace l'evento della filiazione sia sufficiente a dimostrare il danno ingiusto subito.
Infatti, secondo la Cassazione, si tratta di domanda riconvenzionale in astratto proponibile, ma a norma di responsabilità aquiliana. Cioè il tacere della madre, anche per lungo tempo, non basta di per sé ad affermare l'illiceità di questo serbar silenzio e dell'ingiustizia del danno. Il danno ingiustamente subito non è perciò presunto dalla mancata comunicazione della donna. Anzi, conclude la cassazione spiegando che il riconoscimento da parte del padre è più un dovere che un diritto.
E tale dovere si manifesta anche nei casi in cui l'altro renda impossibile il riconoscimento, nel comportamento attivo di chi si interessa di conoscere le conseguenze di una relazione sessuale. Cosa che non aveva mai fatto il ricorrente (ora l'erede). Il padre della vicenda in questione, inoltre, aveva sempre contrastato in giudizio l'affermazione della sua paternità naturale determinando di conseguenza l'insussistenza del danno lamentato di negata paternità.
Fonet: Il Sole 24 Ore del 6 maggio 2020