Post e foto sui social, il nodo è il consenso
Velo su visi e nomi di post e foto caricate sui profili aperti dei social network. A imporlo è il Garante della privacy, che nel 2019 ha ricevuto numerosi reclami e segnalazioni aventi ad oggetto la pubblicazione di dati personali (commenti, fotografie) sui profili social e, in particolare, su Facebook, Instagram e YouTube.
Il Garante, nella Relazione dell'attività svolta nell'anno 2019 (presentata al Parlamento il 23 giugno 2020), ha, in prima battuta, precisato che le disposizioni che disciplinano la materia sono quelle di cui agli articoli 136 e seguenti del Codice dedicate a «finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero». In base a questa impostazione, dunque, non è richiesto il consenso dell'interessato, sempre che sussistano adeguate finalità di interesse pubblico. Bisogna, però, bilanciare la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela dei dati personali, cosa che va fatta caso per caso sulla base del tipo di diffusione sui social media e della natura dell'informazione.
Nel 2019 sono stati presentati al Garante reclami e sono state inviate segnalazioni a riguardo di vicende ricorrenti nella vita di tutti i giorni. Come la diffusione di foto di minori da parte di uno dei genitori separati: in questi casi il Garante ha chiesto di provvedere all'eliminazione delle foto di minori «postate» da uno dei due genitori separati senza il consenso dell'altro.
Altri casi hanno evidenziato la diffusione di foto presenti su profili Facebook chiusi e aperti: per i profili chiusi il Garante ha ritenuto che non si applichi la normativa sulla protezione dei dati, reputandosi il trattamento in questione effettuato per finalità personali e domestiche.
Quanto ai profili aperti, l'eliminazione tende ad essere disposta per le foto e i video in cui il segnalante risulta essere riconoscibile, se questi non abbia prestato il consenso.
In caso di diffusione di foto sui social finalizzate a denunciare attività illecite (ad esempio, conferire in modo improprio la spazzatura; rendere noto un veicolo parcheggiato in un luogo non consentito): la relativa diffusione è stata ritenuta ammissibile a condizione che fossero riprese in luogo pubblico e che i soggetti fotografati non fossero riconoscibili.
Quanto alla diffusione sui social di atti giudiziari, il Garante ha valutato caso per caso se i dati diffusi fossero tutti di interesse pubblico, chiedendo di eliminare i dati non essenziali (ad esempio il numero di telefono degli interessati).
Per la diffusione sui social di profili fake, il Garante ha chiesto al titolare della pagina Facebook la rimozione degli stessi.
Nel 2019 l'unico provvedimento adottato in materia ha riguardato un reclamo, presentato da un personaggio che riveste un ruolo pubblico, con il quale lo stesso ha lamentato la diffusione su Facebook e su altri social network di video che diffondevano l'indirizzo di residenza e le fotocopie degli assegni circolari con i quali aveva proceduto all'acquisto della sua abitazione.
Il Garante ha ordinato l'eliminazione di questi video, posto che si trattava di dati privati che, in considerazione delle potenzialità diffusive proprie di internet e dei social media, mettevano a rischio l'incolumità dell'interessato e della sua famiglia.
La materia è particolarmente sentita e il tema si allarga fino a chiedersi se i gestori dei social possano o debbano intervenire a eliminare contenuti caricati sui profili e account: questo allo scopo di pulire la rete da contenuti offensivi, da discorsi pieni di odio, istigatori di campagne diffamatorie, e da propalazioni di informazioni false.
Da un lato c'è chi dice che se i social si mettono a controllare i post e le foto caricate, si corre il rischio di censure, ad opera di un soggetto privato, ai danni della libertà di espressione del pensiero.
Chi appartiene a questo filone aggiunge che contro hater e autori di diffamazioni deve intervenire lo Stato con i giudici, ed è sbagliato far diventare i gestori dei social i vigilantes della rete.
Per quest'impostazione è meglio correre il rischio di una fake news o di un hate speech in più sulla rete piuttosto che un post o un tweet legittimo in meno.
Così, però, in mancanza di una subitanea rimozione giudiziale della notizia falsa o del messaggio pieno di odio, a rimetterci è la persona che vede circolare, senza possibilità di difendersi, contenuti dannosi. E la inarrestabile istantanea diffusività planetaria di notizie e opinioni dannose non temono di essere smentite dal comportamento dell'interessato nella vita reale (le verità della vita reale non contano nel mondo virtuale).
Dall'altro lato chi la pensa esattamente al contrario e vorrebbe ampliare il ruolo di controllo e, quindi, le responsabilità, in caso di inerzia, delle società che, a livello planetario, gestiscono i social network.
Il gestore del social, si dice, può intervenire subito, cancellando in tutta la rete mondiale il contenuto illecito ed è un soggetto sempre individuabile e solvibile (al contrario dell'anonimo hater).
Per questa impostazione è meglio correre il rischio di un contenuto illegittimamente censurato dal gestore del social piuttosto che un'offesa digitale in più.
In questo caso a rimetterci sono coloro i quali sono esclusi dalla rete e dalle possibilità comunicative per errore o per politiche discriminatorie realizzate, in ipotesi, da soggetti privati (di fatto delegati di un compito attinente l'esercizio di pubblici poteri).
Ci sono, come capita spesso, buone ragioni in tutti e due i filoni. Peraltro, rispetto al primo orientamento è evidente che esso presuppone un servizio giudiziario in grado di intervenire subito e in ambiti sovranazionali: in mancanza l'assenza di responsabilizzazione dei gestori dei social unita all'inefficienza del servizio giudiziario si traduce inevitabilmente nel via libera incondizionato all'hater, al diffamatore, al divulgatore di fake news.
Fonte: Italia Oggi Sette del 6 luglio 2020