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A poco più di una settimana dall’attacco hacker che ha colpito Facebook e messo a rischio almeno 50 milioni di profili, i dati frutto di quel bottino sono già in vendita sul dark web e a prezzi bassi. A fare la scoperta il sito The Independent, che ha notato nei mercati sotterranei del web – una parte di Internet accessibile solo con determinati software – annunci che offrono agli acquirenti i dati personali degli utenti di Facebook per un minimo di 3 dollari.

Un vero e proprio attacco hacker, che ha coinvolto centinaia, se non migliaia, di account Instagram. Gli utenti, infatti, si sono ritrovati all'improvviso disconnessi e non sono riusciti ad accedere di nuovo. Poteva sembrare un malfunzionamento dei server del social network, ma gli sviluppatori hanno precisato che tutto funziona regolarmente e quindi gli account interessati sono stati violati.

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Chi inserisce il pulsante «mi piace» di Facebook sul suo sito Internet è contitolare del trattamento con l'azienda di Mark Zuckerberg. Anche se la raccolta dei dati di chi si collega al sito e la comunicazione a Facebook potrebbe essere fatta senza necessità di consenso ad hoc. Inoltre, le associazioni dei consumatori possono proporre una causa per violazioni della privacy. Queste le conclusioni dell'avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell'Unione europea, nella causa C-40/17: ora tocca alla Corte pronunciarsi nel merito.

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Mercoledì, 18 Ottobre 2023 09:57

Attivo il canale WhatsApp di Federprivacy

È adesso attivo il canale WhatsApp di Federprivacy, a cui è possibile iscriversi per ricevere in modo semplice e diretto sul proprio smartphone le notizie più importanti e gli aggiornamenti in materia di protezione dei dati personali, ed essere informati sulle attività dell’associazione.

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Il 7 novembre il primo ministro australiano Anthony Albanese ha annunciato la presentazione di una legge per vietare l’accesso ai social network ai minori di 16 anni, e un giro di vite nei confronti delle grandi aziende tecnologiche, che secondo lui non proteggono adeguatamente gli utenti vulnerabili.

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Ad anni di distanza il caso Cambridge Analytica torna a far tremare Facebook. Il colosso di Mark Zuckeberg è stato citato in giudizio dal Governo australiano per la violazioni delle legge nazionali legate alla privacy, con una richiesta di risarcimento che potrebbe arrivare fino a 529 miliardi di dollari.

Trattamento illecito di dati personali e diffamazione aggravata per aver messo in vendita online un catalogo di (ignare) donne single di quel ramo del lago di Como. Il Tribunale di Lecco ha depositato le motivazioni della condanna - 1 anno e sei mesi, oltre ai risarcimenti civilistici in separata sede -al fantasioso “editore” che quattro anni fa aveva creato fama non cercata e problemi relazionali a 1218 donne di ogni età, finite loro malgrado in un catalogo tratto da Facebook «che costa meno di un aperitivo».

Per iscriverti devi inviare una foto al gestore del canale. Deve essere un nudo. Accettiamo solo utenti tra i 12 e i 17 anni”. E, ancora, “Accettiamo solo bambine tra i 5 e i 17 anni. Inizia a avere sesso in chat con il gestore del canale”. Sono solo alcuni dei titoli di gruppi – server in gergo – attivi su Discord, una delle più popolari app di comunicazione online al mondo identificati in un’inchiesta tanto bella quanto raccapricciante della NBC News.

Ha suscitato scalpore il caso di Cambridge Analytica, come se non sapessimo che Facebook non è proprio il miglior amico della nostra privacy. Assorbiti dai suoi aspetti ludici a suon di condivisioni e “like”, avevamo forse dimenticato che se un’azienda fattura 40 miliardi di dollari l’anno fornendo servizi gratuiti ai propri utenti, c'è la concreta possibilità che il reale prodotto siamo noi con le informazioni personali che ci riguardano.

Body shaming sui social? È diffamazione. E a contare non sono solo le parole ma anche le emoticon che accompagnano il post condiviso su Facebook. È quanto emerge dalla sentenza con cui la quinta sezione penale della Cassazione (n. 2251/2023) ha confermato la condanna per il reato di cui all'articolo 595, terzo comma, c.p., nei confronti di un uomo che aveva pubblicato un post derisorio su Facebook.

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