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La privacy dei consumatori deve essere la priorità del digital advertising

Il fatto che Google abbia apparentemente rinunciato alla promessa di eliminare del tutto gli identificatori di terze parti è stato un colpo di scena per tutta l’industria pubblicitaria. Un colpo di scena che, pur essendo giunto in modo improvviso, non era inaspettato per chi opera nel settore del digital advertising.

Sia agli inserzionisti che hanno pianificato diligentemente le loro mosse in vista della dismissione dei cookie sin dal primo annuncio di Google nel gennaio 2020, sia a coloro che sono stati scettici sulla sua effettiva realizzazione, quest’ultima decisione di Google è sembrata inizialmente un drastico cambio di direzione.

La realtà che si cela dietro questa mossa è tuttavia molto diversa. Google non sta abbandonando del tutto gli ID di terze parti, ma sta, per molti versi, accelerando la loro irrilevanza nel futuro dell’advertising e per la raggiungibilità del pubblico di riferimento.

Ridurre i dati per le terze parti, per un bene superiore - La dichiarazione di Google ha certamente spostato l’obiettivo, ma contiene anche un dettaglio chiave che segnala la nuova direzione di marcia a cui il settore avrebbe dovuto già prepararsi. Ciò che si evince, infatti, è che gli identificatori di terze parti non scompariranno, ma gli utenti potranno scegliere se accettarli o meno, a livello di browser.

Questo non è solo un problema futuro, ma sta accadendo già ora. Infatti, quasi il 50% del traffico sull’open internet non è tracciabile tramite cookie, in parte perché Safari e Firefox li hanno già eliminati gradualmente. Allo stesso modo, da quando Apple ha introdotto la sua App Tracking Transparency, solo il 34% degli utenti iOS in tutto il mondo ha scelto di essere tracciato in-app.

Anche su Chrome, il gruppo di utenti che accettano i cookie sta già diminuendo. Nell’UE, dove il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) è in vigore dal 2018, il 36% degli utenti impedisce o limita il tracciamento attraverso identificatori su ogni dispositivo.

Analogamente, negli Stati Uniti, l’86% degli acquirenti ha dichiarato di essere più preoccupato per la privacy dei propri dati che per lo stato dell’economia. Mentre in Italia il 53,7% degli utenti online talvolta rifiuta i cookie.

Se a ciò si aggiunge il fatto che si registra un crescente utilizzo di VPN e di altri sistemi di blocco degli annunci tra gli utenti, è chiaro che il pool di dati degli utenti raggiungibili attraverso gli identificatori sta rapidamente diminuendo. Il panorama digitale sempre più incentrato sulla privacy è chiaramente guidato non dalle aziende tecnologiche o dai legislatori, ma dai consumatori stessi. Sebbene Google abbia fornito poche informazioni su come gli utenti saranno in grado di rinunciare ai cookie, è evidente che molti di loro lo faranno.

Tutto questo porta, a sua volta, a una riduzione della raggiungibilità del target nell’Open Internet, facendo aumentare il costo delle impression per gli inserzionisti che si aggrappano ancora a questo metodo di targeting. Nessuno dovrebbe considerare l’annuncio di Google come un momento in cui restare fermi in attesa. È piuttosto un campanello d’allarme che dovrebbe scuotere l’inerzia di tutti gli operatori del settore, accelerando a sua volta la scomparsa di questi identificatori.

Francesca Lerario, Managing Director Southern Europe, Ogury

(Nella foto: Francesca Lerario, Managing Director Southern Europe, Ogury)

La ricerca continua verso la privacy dei dati - Per molti versi, il passaggio a un Internet più sicuro dal punto di vista della privacy ha creato un classico dilemma dell’innovatore. Molti dei maggiori operatori del settore adtech hanno costruito le loro soluzioni sugli identificatori di terze parti e, non essendo emersa alcuna chiara alternativa, non sono stati incentivati a cambiare.

Allo stesso tempo, però, c’è chi ha invece sperimentato nuovi approcci che pongono la privacy al centro delle soluzioni di targeting. Sono coloro che hanno cercato di adattarsi per tempo a questo cambiamento e che avranno successo a lungo termine nel futuro panorama digitale. Le aziende che non riconoscono questo cambiamento nella direzione di marcia del settore rischiano di perdere quote di mercato e, di conseguenza, ricavi significativi.

Molti di coloro che ancora si aggrappano ai dati per le terze parti, lo hanno fatto a causa delle limitazioni riscontrate nelle altre soluzioni disponibili. Le aziende che hanno testato la Privacy Sandbox di Google si sono sentite ostacolate dalle varie sfide e dai casi d’uso che le API non potevano coprire, mentre gli inserzionisti che hanno testato soluzioni come gli ID alternativi ne hanno conosciuti i limiti nella possibilità di impiego su larga scala. Tuttavia, sarebbe un errore credere che queste siano le uniche alternative disponibili. Coloro che hanno creduto e investito in soluzioni più innovative, come gli zero-party data, si troveranno in una posizione più forte a lungo termine.

Il nostro settore si trova a un punto di svolta decisivo nella protezione dei dati dei consumatori. È chiaro che è inutile proseguire con un modello destinato a scomparire. Questo nuovo cambio di rotta non deve essere visto come un’occasione per rimandare a un momento futuro il passaggio a soluzioni senza ID, ma deve invece far risaltare la necessità di investire in soluzioni di targeting testate e collaudate, in grado di raggiungere il target anche su larga scala, indipendentemente dalle future decisioni del settore.

Per gli operatori che avevano già previsto la dismissione degli identificatori pubblicitari, questa notizia è un segnale positivo. Contribuirà a scuotere l’inerzia che circonda l’abbandono degli identificatori di terze parti, accelerando invece questo cambiamento. La privacy dei consumatori deve essere la priorità del nostro settore; non dobbiamo chiudere gli occhi o aspettare che altri operatori del settore prendano queste decisioni per noi.

Note Autore

Francesca Lerario Francesca Lerario

Managing Director Southern Europe, Ogury

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