Il vaiolo delle scimmie e il 'vaccino dei gay': lo stigma è dietro l’angolo, e il rischio di violazione dei dati personali pure
Il Ministero della Salute ha emanato le indicazioni per la strategia vaccinale contro il vaiolo delle scimmie lo scorso 5 agosto. In tale documento, si legge che, considerando “l’attuale scenario epidemico” e la “limitata disponibilità di dosi”, il vaccino verrà riservato inizialmente ad alcune “prime categorie ad alto rischio”, tra cui “persone gay, transgender, bisessuali e altri uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM)” i quali svolgano un’attività sessuale non monogamica, ovvero si trovino in una delle seguenti condizioni: “i) storia recente (ultimi 3 mesi) con più partner sessuali; e/o ii) partecipazione a eventi di sesso di gruppo; e/o iii) partecipazione a incontri sessuali in locali/club/cruising/saune; e/o iv) recente infezione sessualmente trasmessa (almeno un episodio nell'ultimo anno); e/o v) abitudine alla pratica di associare gli atti sessuali al consumo di droghe chimiche (Chemsex)”.
Per vaccinarsi bisogna mandare una mail all’Istituto Spallanzani in cui si indica la propria volontà di ricevere il vaccino e la propria appartenenza a una categoria a rischio di cui sopra. I rischi per la privacy e la protezione dei dati personali sono dietro l’angolo. Lo stigma nei confronti delle persone LGBTQIA+ è ancora molto presente nel nostro paese e potrebbe facilmente sommarsi allo stigma nei confronti delle persone che hanno una maggiore libertà sessuale e allo stigma nei confronti dell’“untore”, che ben abbiamo imparato ad osservare negli ultimi anni di pandemia.
Appena pochi anni fa, un sondaggio ha dimostrato che lo stigma nei confronti della libertà sessuale è ancora molto presente nel nostro paese: solo il 25% degli intervistati considerava il sesso come un atto libero, a prescindere da rapporti sentimentali stabili. La triste storia dell’AIDS nella fine del secolo scorso ci ha insegnato quanto il “sex shaming” e l’omofobia possano pericolosamente allearsi nello stigmatizzare le persone gay, soprattutto se vivono una vita sessuale disinvolta.
Il vaiolo delle scimmie sembra riproporre l’incubo della “malattia dei gay”, in un mondo che ha imparato a fare i conti con programmi anti-pandemici e piani vaccinali d’emergenza, ma anche in un mondo in cui siamo i nostri dati personali e in cui le nostre tracce digitali sono merce di scambio e fonte di profilazione, discriminazione e pubblicità personalizzata nel mercato digitale.
La domanda pare dunque ovvia: è necessario, sicuro e lungimirante (ancora prima che legale) limitare l’accesso al vaccino a una categoria specifica, soprattutto se così vulnerabile a discriminazione e stigma (“gay, transgender, bisessuali e altri uomini che hanno rapporti sessuali con uomini” che hanno una vita sessuale libera e non monogamica)? Ed è saggio ridurre tutto a una prenotazione via e-mail in cui ci si auto-dichiara come membri di una di quelle categorie a rischio?
Da un punto di vista epidemiologico può risultare giustificato limitare la vaccinazione a specifiche categorie vulnerabili, per via della limitata disponibilità di dosi e per la necessità di ridurre la diffusione rapidamente, agendo direttamente su gruppi che statisticamente risultano i più interessati dall’epidemia. Tuttavia, ci si deve chiedere se le modalità della campagna vaccinale possano amplificare lo stigma esistente verso quelle categorie sociali – anche considerando che il vaiolo delle scimmie non è una malattia a trasmissione sessuale – e se tali modalità siano rispettose delle leggi sulla privacy e sulla protezione dei dati.
Il Regolamento Europeo sulla protezione dei dati (“GDPR”) considera dati sensibili (“speciali categorie di dati”) – tra gli altri – tutti i dati concernenti l’orientamento sessuale, la vita sessuale e lo stato di salute. Il trattamento di tali dati può essere fatto solo in uno dei pochi e specifici casi previsti dalla legge (tra cui ben rientra la salute pubblica e la prevenzione delle epidemie), adottando specifiche aggiuntive misure di sicurezza, che siano parametrate ai rischi valutati in concreto, e in ottemperanza ai principi di necessità e proporzionalità.
In questo caso, l’essere un soggetto vaccinabile per il vaiolo delle scimmie in Italia sembra essere un “triplo” dato sensibile, perché è un dato che rivela al tempo stesso, con buona approssimazione, sia l’orientamento sessuale o l’identità sessuale (gay, bisex, transgender), sia la vita sessuale (fare sesso libero, in club, chemsex, ecc.), sia i rischi sullo stato di salute del soggetto vaccinato o da vaccinare.
I commentatori giuridici si sono a lungo interrogati sui dati “quasi-sensibili”, cioè su quei dati che, pur non concernendo strettamente lo stato di salute o l’orientamento sessuale, ecc., possono indirettamente portare a rivelare informazioni sensibili, semmai attraverso altri dati statistici o personali. Appena una settimana fa, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha pubblicato una sentenza in cui ha affermato che le informazioni che possano anche solo indirettamente portare a rivelare dati su orientamento sessuale e vita sessuale del soggetto sono da considerare dati sensibili.
(Nella foto: Gianclaudio Malgieri, Professore Associato di Diritto e Tecnologia alla EDHEC Business School di Lille)
In questo caso, in realtà, saremmo nell’estremo opposto: si tratta di dati “super-sensibili”, cioè dati che da soli possono rivelare direttamente almeno tre aspetti sensibili del soggetto in questione. In base all’approccio per livelli di rischio, occorre chiedersi se questa “tripla” sensibilità del dato in questione porti effettivamente a un rischio “triplo” per i diritti fondamentali del soggetto nel caso in cui questi dati vengano raccolti ed elaborati. I rischi sono, in effetti, molteplici e complessi: basti pensare al rischio di discriminazione e stigmatizzazione nel caso in cui la mail di prenotazione al vaccino – una normale mail, senza speciali misure di anonimizzazione – sia vittima di una violazione dei dati (data breach) e questi dati “super-sensibili” siano diffusi. Per non parlare poi degli effetti a cascata: effetti negativi sul luogo di lavoro (fino al licenziamento del “gay libertino”); discriminazione di prezzo da parte di servizi di e-commerce o assicurativi (es., assicurazioni sulla vita che possono alzare i prezzi per i soggetti a rischio); effetti negativi in famiglia (si pensi alle persone che non hanno dichiarato il proprio orientamento sessuale o la propria vita sessuale ai familiari); fino ad arrivare alle conseguenze psicologiche derivate sul soggetto (incluso il rischio del suicidio).
Questa ampia gamma di rischi ci fa comprendere che, quand’anche sul piano politico-sanitario sia giustificato riservare la vaccinazione ai soggetti gay, bisex e transgender che svolgono una vita sessuale attiva e libera, la “proporzionalità” dei metodi dell’attuale campagna vaccinale risulta quantomeno dubbia. E i problemi non si riducono al solo piano della legislazione privacy, ma si estendono anche al più ampio impatto politico-sociale che deriva dal mettere nero su bianco l’esistenza di una “epidemia dei gay libertini”.
Quali alternative avrebbe il Ministero affinché il principio di proporzionalità sia rispettato? Probabilmente “consigliare” il vaccino a quelle categorie più a rischio, ma rimandare la decisione a un medico vaccinatore che, previo un incontro fisico e un questionario (simile a quello che si compila per la donazione del sangue), possa indicare se il paziente necessita del vaccino o invece non è a rischio. Tutto ciò porterebbe a una riduzione dell’automatismo stigmatizzante (se sei “gay maschio libertino” allora sei untore di vaiolo delle scimmie), ma anche a una maggiore protezione giuridica e tecnica dei dati super-sensibili dei soggetti. Non esiste una malattia dei gay. A differenza delle persone, le malattie non discriminano.
di Gianclaudio Malgieri (Fonte: Repubblica)