Il Data Protection Officer e l’epoca dei neurodiritti
Se mai ci può essere una sfida (diversa ed ulteriore) alla postura che un Data Protection Officer è chiamato ad assumere, quella di “restare sul pezzo” in un mondo travolto dalle nuove tecnologie e dalle loro ricadute non solo tecniche, ma anche sociali ed individuali, costituisce -senza dubbio- la “madre di tutte le prove”.
(Nella foto: Mario Mosca, DPO di BNP Paribas Italia, speaker al Privacy Day Forum e al Privacy Symposium)
A costo di scadere nella banalità dobbiamo sempre tenere a mente l’incredibile velocità con la quale il cambiamento è entrato nella nostra vita e, complice anche un evento pandemico che sembrava essere relegato agli scenari più cupi di certa fantascienza apocalittica, comprendere come gli eventi abbiano messo a dura prova la tutela della stessa persona umana e, conseguentemente, il “nocciolo duro” della dignità dell’individuo.
Gli ultimi eventi bellici hanno poi, se possibile, ulteriormente aggravato lo scenario, ricordandoci una volta di più il considerando 4 del GDPR il cui portato, laddove ce ne fosse bisogno, invita ogni cultore della materia a non dimenticare mai che: “il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con gli altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità”.
E ‘ quindi con un approccio laico, senza essere cioè né asservito alle nuove divinità informatiche, né ad una sorta di cripto-luddismo reazionario, che il DPO deve porsi innanzi al tema delle neuroscienze e dei neurodiritti.
Quello che sta accadendo in ambito scientifico (anche in questo caso in maniera accelerata) è di tutta evidenza: le tecniche di neuroimaging, quali, ad esempio l’elettroencefalografia o la risonanza magnetica, stanno offrendo sempre più chiaramente un riscontro non solo del fatto che stiamo pensando, ma anche, e con sempre maggior attendibilità, di cosa stiamo pensando.
In tale opera di “lettura del pensiero” è naturalmente intervenuta, potenziandone oltremodo le capacità, l’intelligenza artificiale e, ormai da qualche anno, parlare di un’interfaccia tra il cervello ed il computer per il tramite di specifici impianti anatomici (si pensi a Neuralink) non ha più quel sapore di argomento di frontiera che aveva in passato.
In altri termini, se già adesso gli algoritmi dei social - partendo dalla nostra navigazione- sono in condizione di stabilire abbastanza fedelmente il nostro stato d’animo (situazione abbastanza preoccupante di per sé), ora ad essere messa a repentaglio è la riservatezza stessa dei nostri pensieri.
Certo, la cura delle malattie neurodegenerative quali Parkinson ed Alzheimer appare ora più vicina, ma più vicina è anche la realizzazione di un interfaccia che sia in condizione di leggere i nostri pensieri, per tacere dell’ipotesi inversa, quella della scrittura, che portò la stessa Autorità Garante a parlare di hackeraggio del cervello.
Insomma, quella cassaforte che contiene il nostro pensiero, quel baluardo inespugnabile della nostra intimità per migliaia di anni ritenuto inespugnabile è sempre meno sicuro.
Ma la dignità umana stessa cessa di esistere se non viene assicurata l’inviolabilità del suo “foro interno”, la libertà e la segretezza del pensiero individuale, le sole che possono impedire che il Leviatano attui una deriva antidemocratica e illiberale quale mai vista prima.
In uno scenario così fosco, tuttavia, qualcosa si muove e la difesa dell’intangibilità del pensiero umano ha già trovato la propria consacrazione giuridica in alcuni stati, segnatamente in Cile.
Nel paese sudamericano è stata approvata una legge che mira a tutelare la “privacy mentale” ed il libero arbitrio, primo concreto esempio di una legislazione volta a contrastare gi abusi delle neurotecnologie sulla manipolazione del pensiero.
Termini quali Il diritto alla libertà cognitiva, all’integrità mentale, alla continuità psicologica, oppure alla già citata privacy mentale entreranno a far parte del nostro lessico, esattamente come gli altri diritti già attualmente e pienamente riconosciuti alla persona umana
In conclusione, è lecito attendersi che la tutela dei neurodiritti assuma una rilevanza sempre maggiore nella società futura, in quella stessa società in cui il DPO sarà chiamato a svolgere con coraggio i propri compiti, anche quelli non citati espressamente dall’art.39 del GDPR, ma tra i quali in alcuni casi rientra, a parer mio, anche quello di difendere i titolari del trattamento dalle proprie stesse ambizioni.