Economia dei dati & informazione: responsabilità del giornalista e aspetti deontologici nel conflitto tra profitto e privacy
Abbiamo bisogno di giornalisti sensibili, preparati, con senso del limite e, perciò, responsabili. La nostra – contrariamente a quanto vien da pensare – non è una professione per cinici, anche se Giampiero Mughini è andato sostenendo che rispetto ai giornalisti “i cannibali sono dei vegani”, per sottolineare la insensibilità che caratterizzerebbe i giornalisti stessi.
(Nella foto: Giovanni Rossi, Consigliere nazionale e Presidente emerito della Federazione Nazionale Stampa Italiana)
Ricordo che la Corte di Cassazione rimanda sempre alle nostre responsabilità, alle nostre capacità di scelta, alla nostra competenza, la decisione ultima su cosa pubblicare. Per la Cassazione, infatti, il giornalista non è un’antenna che trasmette la notizia al pubblico, ma, raccolta la notizia, la elabora usando le sue capacità critiche (quindi la sua cultura e sensibilità). Sempre la Cassazione ha definito “legge” le Regole deontologiche giornalistiche relative al trattamento dei dati, ma - come accade spesso in Italia – altri settori della Magistratura non hanno concordato con tale affermazione.
Del resto, le recenti norme sulla presunzione di innocenza utilizzate in Italia per limitare il diritto di cronaca derivano sì da normative europee, ma sono una forzatura di esse tanto che gli organismi della nostra categoria si sono rivolti alla stessa Unione Europa affinché intervenga sull’Italia perché le modifichi di conseguenza.
Il tema che affrontiamo in questo articolo, in realtà, è centrale per una democrazia moderna.
Siamo, infatti, immersi nell’economia dei dati ed è sempre più evidente l’esistenza e lo svilupparsi di un conflitto tra diritto alla riservatezza ed il profitto (enorme) derivante dal commercio dei dati. Chi tende a vincere questo conflitto è abbastanza evidente (le ragioni del profitto), tanto che l’Unione Europea dibatte attorno alle caratteristiche del suo Data Act che contiene le regole per la gestione dei dati, e si è di fronte ad una forte tendenza a ridurne la protezione per sviluppare l’economia di cui sopra.
A questo proposito, un’altra prova è la vicenda dell’uso di dati riguardanti cittadini europei da parte di soggetti statunitensi. La Corte di Giustizia europea, nel 2020, ha giudicato gli Stati Uniti non sufficientemente sicuri dal punto di vista del trasferimento negli USA di dati riguardanti cittadini europei.
Il Presidente Biden per facilitare un accordo (sono in ballo questioni economiche rilevantissime) ha sottoscritto quello che viene chiamato un “executive order” (ordine esecutivo) che dovrebbe fornire maggiori garanzie di rispetto della privacy dei singoli.
Si tratta di una cosa simile a quello che un film americano del 1956 (“I dieci comandamenti”) attribuiva al Faraone d’Egitto che avrebbe usato questa formula per codificare le proprie intenzioni: “Così sia scritto, così sia fatto”. Ma … ovviamente c’è un ma: un simile documento non è una legge, è solo un atto d’indirizzo, che, peraltro, non modifica le norme americane in materia che sono meno garantiste della privacy rispetto a quelle dell’Unione Europea.
In questa vicenda è centrale l’autorevolezza e la reale indipendenza che avrà la capacità di esercitare l’Autorità USA che deve giudicare gli eventuali ricorsi dei cittadini europei sull’uso dei loro dati da parte di agenzie d’intelligence d’oltre oceano.
Di tutto ciò l’opinione pubblica non ne è del tutto avvertita. Noi stessi – giornalisti – non ne abbiamo piena coscienza. Oggi siamo di fronte a situazioni come quella verificatasi in un Paese del Nord Europa dove la polizia, per cercare testimonianze sulle circostanze della morte di una persona, ha utilizzato un “avatar”, quindi ha resuscitato virtualmente la stessa vittima, che ha fatto appello ai cittadini perché collaborassero con le autorità. Una sorta di immortalità virtuale.
Ancora: in Olanda l’Agenzia delle Entrate si è affidata all’Intelligenza Artificiale per individuare il profilo degli evasori fiscali. Il risultato è che sono stati sanzionati immigrati e ceti bassi le cui dichiarazioni contenevano errori. A loro sono stati revocate le case popolari che avevano avuto, tolto il “reddito minimo garantito”, la versione olandese del nostro reddito di cittadinanza. Alla fine tutto è risultato un errore e l’Autorità di controllo ha sanzionato pesantemente l’Agenzia delle entrate e fatto revocare i provvedimenti a carico dei cittadini. Purtroppo, nel frattempo, alcune persone, disperate per avere perso tutto, si sono suicidate.
E vengo al tema più specifico.
Come noto la legge n. 69 del 1963 istitutiva della professione giornalistica, da quel momento riconosciuta e regolata dalla legge della Repubblica italiana, attraverso l’ente pubblico Ordine, afferma che l’attività dei giornalisti si basa sul diritto, definito “insopprimibile”, alla libertà d’informazione e di critica, ma aggiunge “limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui”. Nel contempo ribadisce che non solo i giornalisti, ma anche gli editori “sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse”. E, ancora, ribadisce che il giornalista “rispetta i diritti fondamentali delle persone e osserva le norme di legge poste a loro salvaguardia”.
E questo già basterebbe.
Sia detto per inciso: dice anche che il giornalista “non aderisce ad associazioni segrete”. Anche se va ricordato che nella lista della loggia massonica deviata P2 ve n’erano di eccellenti (almeno come nomi).
C’è, nel Testo Unico dei Doveri del Giornalista – all’articolo 3 – tutta una serie di norme a tutela dell’identità personale e del diritto all’oblio. Se ne è parlato molto nel corso di un seminario che ha avuto luogo nel 2021 dedicato proprio al tema. Mi limito, in proposito, a ricordare che alla questione è riservata appunto l’intero articolo 3 del nostro Testo nel quale si parla di “identità personale e diritto all’oblio” che – sostanzialmente – indica al giornalista la via della cautela quando tratta di notizie e dati tanto delicati soprattutto in rapporto a vittime di reati, ma anche di protagonisti di tali reati.
Il punto che interessa qui è soprattutto quello regolato dall’articolo 4 dove si dettano le regole deontologiche relative al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica.
Nell’allegato a tale articolo si riprendono in toto le argomentazioni di fondo e si comincia con il dire che l’attività giornalistica non può essere condizionata da autorizzazioni o censure e che il trattamento dei dati per motivazioni conseguenti all’esercizio di tale professione si differenzia sostanzialmente da quanto avviene per altre motivazioni nella raccolta dei dati stessi (come sono, ad esempio, banche dati e simili).
Un aspetto fondamentale: il giornalista che raccoglie notizie deve rendere sempre note la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa; evita artifici e pressioni indebite sui propri interlocutori. Fatta palese tale attività, il giornalista non é tenuto a fornire altri elementi che pure per soggetti diversi sono previsti dalla normativa sulla privatezza.
Gli archivi dei giornalisti – finalizzati all’esercizio della professione – possono essere conservati per tutto il tempo necessario a tale fine e sono tutelati dalla legge sulla base delle norme istitutive dell’Ordine, del Regolamento della privacy e del Codice.
Nel raccogliere dati personali atti a rivelare origine razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, adesioni a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché dati genetici, biometrici, intesi a identificare in modo univoco una persona fisica e dati atti a rivelare le condizioni di salute e la sfera sessuale, il giornalista deve garantire il diritto all´informazione solo su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell´essenzialità dell´informazione (quindi senza sbavature ed enfatizzazioni), evitando riferimenti a congiunti o a persone non coinvolte nel fatto. In sostanza, non deve sollecitare la morbosità pur presente nell’opinione pubblica.
Quante volte ci siamo trovati di fronte a palesi violazioni di questi principi!
Queste frasi – così come si trovano sostanzialmente nei testi che ci riguardano - significano che chi ha – per sua scelta – un’esposizione pubblica (politici, attori, ecc.) è meno tutelato nei dati sensibili che lo riguardano quando a trattarli è un giornalista. Salvo, ovviamente, si tratti di cose prive di qualsiasi rilievo rispetto al ruolo pubblico di queste persone.
“La crescita di informazioni è così grande che il giornalista deve diventare un filtro: un gestore di banche dati, un processore di dati e un analista di dati” scriveva Philip Meyer in Precision Journalism, libro del 1973 considerato uno dei capisaldi del giornalismo dei dati odierno, riferendosi alla maggiore precisione ed accuratezza necessaria nel lavoro giornalistico nel nuovo mondo dei dati.
Oggi se il giornalismo vuole essere utile all’opinione pubblica e continuare a svolgere il proprio ruolo di “cane da guardia” della stessa opinione pubblica verso il potere e sfuggire a quello di “cane da salotto” che gli vuole assegnare il potere (tutti i poteri), deve indagare anche sugli algoritmi con ciò intendendo che la sua indagine deve puntare a svelare i meccanismi anche tecnologici che caratterizzano il potere nella nostra epoca che non a caso viene definita post-moderna. Il problema è che gli algoritmi già ora sono una presenza nella professione giornalistica e la condizionano.
La monetizzazione dei dati è al centro della economia di Internet, mi pare che questo sia fuori discussione. Noi, individui, siamo il principale prodotto di questo gigantesco commercio.
Gli algoritmi che permettono ciò, alla base dei quali ci sono grandi quantitativi di dati personali dei lettori, sono un nuovo e potente modo di esercitare il potere nella società odierna.
Quindi, almeno per quanto riguarda la professione di giornalista, ma non solo, ne va contrattata la programmazione sulla base delle nostre esigenze professionali e, soprattutto, delle nostre regole deontologiche.