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Come è difficile definire il diritto alla privacy

Tik Tok è una app cinese. Pare che la vedano circa un miliardo di persone. I video propinati dall’app in questione durano 15 secondi. Il loro contenuto, dal punto di vista intellettuale, è di media deprimente. Ma, come è naturale, ci sono eccezioni. Di recente, i giornali hanno dato giusto risalto a quel video di Tik Tok in cui una ragazza parla dei lager in cui sono tenuti gli Uiguri (una minoranza musulmana) in Cina, mentre placidamente si rifà il trucco. Un caso classico di eterogenesi: uno strumento tipicamente privato come il make up viene adoperato per un fine decisamente pubblico come lo è una denuncia politica.

 

Fatto è che i nuovi media rendono sempre più difficile distinguere tra pubblico e privato. E l’idea stessa di privatezza — o se preferite privacy — è a rischio. Cosa questa che impone una riflessione seria. La privatezza — difficile negarlo — è un valore non rinunciabile, uno spazio protetto che serve psicologicamente a costruire noi stessi e socialmente ad avere buone relazioni con gli altri. Ma se cerchiamo di definirlo, questo valore, ci rendiamo conto di quanto sia impalpabile e vago.

Vengono in mente parole come intimità, confidenzialità, anonimità, solitudine, esclusione, domesticità e così via. Non è chiaro però come mettere in relazione l’atmosfera che tali termini determinano con prerogative forti o diritti. Insomma, non sappiamo come collegare tutto ciò chessoio al diritto di una persona famosa a non far sapere che ha il cancro o una relazione amorosa segreta, oppure a quello di un impiegato alla riservatezza sulla sua salute nei confronti del datore di lavoro.

Proprio per questo motivo, non sono mancati filosofi e giuristi che hanno dubitato della possibilità di definire con chiarezza un generale diritto alla privacy, preferendo parlare di specifiche forme di tutela di singoli spazi di vita.

La cosa, già di per sé non semplice, è complicata dall’avvento delle Ict (Information Communication Technologies) e del web. Quanto rilevato da Edward Snowden, e più di recente la scoperta di Cambridge Analytica, sembrano mostrare che le invasioni delle sfere protette degli individui sono reali con conseguenze assai pericolose. Le capacità tecnologiche di raccogliere, collezionare e usare per fini propri enormi quantità di dati personali sono aumentate a dismisura e adoperate per fini commerciali e politici. Big Tech (Google, Amazon, Facebook, Microsoft, Apple) ha costruito un sistema basato sullo sfruttamento dei dati personali che Shoshana Zuboff ha battezzato «capitalismo della sorveglianza».

Se una volta era il personaggio famoso la cui vita era sotto la luce dei riflettori, ora siamo tutti e sempre osservati, spiati, manipolati. Molti, perciò, lamentano il fatto che il web sta erodendo la spazio del privato. Se, mettendo per un attimo da parte i big data, guardiamo fenomeni micro abbastanza comuni come il sexting (scambio di comunicazioni sessuali esplicite tra adolescenti) o il revenge porn (dove l’amante lasciato si vendica postando foto esplicite di rapporti sessuali precedenti) si capisce bene che eventi prima ritenuti del tutto privati ora non sono più tali. Con i pericoli del caso.

Ma non si tratta solo di erosione dello spazio privato. Accade infatti anche l’inverso. Basta pensare ai post di propaganda di Salvini, in cui biopoliticamente il suo corpo privato gioca un ruolo pubblico, per comprenderlo. Per non parlare del suo seguace leghista Di Muro che fa domanda di matrimonio in Parlamento. In ultima analisi, molto di quello che era ritenuto privato ora è pubblico, e viceversa aspetti tipici del pubblico diventano privati. Questo perché il web cambia le nostre attitudini nel profondo.

Naturalmente, altra cosa è descrivere per sommi capi i sintomi di una fenomenologia dal valutarla positivamente. Più chiaramente: non è detto che tutto ciò sia un bene. Può mettere a rischio un valore fondamentale come quello della privacy.

Nel qual caso, bisognerebbe cercare rimedi. Pensare a una sorta di auto-riforma che porti a minore invasività dei network è utopico. Trasformare i diritti alla privacy in diritti reali, dando loro una tutela più forte come quella che protegge la proprietà dal furto, è legalmente complesso. Forse, la strada migliore consiste, sulla scia di quanto pensava Stefano Rodotà, nel creare un diritto costituzionale all’autonomia della persona. Che sarebbe poi la possibilità di «essere lasciati soli» quando lo desideriamo, come scrissero poeticamente due giudici famosi (Warren e Brandeis).

Articolo di Sebastiano Maffettone, pubblicato sul Corriere della Sera del 6 dicembre 2019

Note sull'Autore

Sebastiano Maffettone Sebastiano Maffettone

Professore ordinario di Filosofia Politica presso la LUISS Guido Carli, dove dirige il Center for Ethics and Global Politics ed è Presidente della Scuola di Giornalismo “Massimo Baldini”. E’ stato visiting professor nelle università di Harvard, Columbia, Tufts, Boston College, University of Pennsylvania, New Dehli, LSE, Sciences-Po (Paris).

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