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Cari social, ecco perché non avrete la foto di mia figlia

Ieri il podcast di Governare il Futuro non è uscito perché l’altro ieri sono diventato papà. Mentirei se dicessi che nelle ultime ore non sono stato tentato di condividere via social la prima foto di mia figlia, il suo primo bagnetto, la sua prima poppata, la sua prima vera dormita tra le braccia della mamma. Ho scattato decine di foto, naturalmente, e decine di volte sono stato a un tap di distanza dal condividerla via social.

Minori online, la privacy è a rischio sui social

A tentarmi, ogni volta, la felicità, l’entusiasmo, l’orgoglio di papà e soprattutto il fatto che quella social è, ormai – giusto o sbagliato, bello o brutto che sia – la dimensione naturale della nostra vita, specie in tempo di pandemia. Ma, almeno sin qui, ho sempre scelto di non pubblicare quelle foto e di limitarmi a inviarle a amici e parenti che il Covid tiene lontano dall’ospedale.

Non è stato facile.

Sono mesi che mi imbatto su Facebook – e non solo su Facebook – in foto più o meno originali di mamme e papà che esibiscono orgogliosamente la foto dei loro neonati e a guardarle ho sempre sorriso e pensato che quel giorno sarebbe arrivato presto anche per me e che avrei fatto altrettanto.

E, d’altra parte, qualche settimana fa, Riccardo Luna, in un bellissimo pezzo proprio su questo argomento ricordava come il post con il quale Chiara Ferragni ha annunciato la nascita della figlia è stato quello che ha raggiunto il record di interazioni su Instagram in Italia: 4,3 milioni (ndr in tre giorni, oggi probabilmente di più).

E lo stesso Luna, nel suo pezzo, da acuto osservatore delle cose del web va oltre i numeri e racconta come non solo il post con il quale la Ferragni ha annunciato la nascita della sua seconda genita abbia avuto più interazioni di quello con il quale aveva annunciato, tre anni prima, il post del suo primogenito ma, soprattutto, del fatto che il secondo post è stato accolto solo da commenti compiaciuti e felici mentre il primo era stato accolto anche da critiche, dubbi e perplessità di chi non aveva condiviso la “spettacolarizzazione” della nascita di un bambino.

Guido Scorza, Componente del Garante per la protezione dei dati personali

(Nella foto: l'Avv. Guido Scorza, Componente del Garante per la protezione dei dati personali)

I costumi, le abitudini, le consuetudini sono così: comportamenti ripetuti da tanti sotto gli occhi di altrettanti che diventano naturali per tutti o, almeno, per i più e, talvolta, vengono persino percepiti come “dovuti”.

E sono in tanti gli amici che attendevano la notizia della nascita di mia figlia via social e che, forse, ci sono persino rimasti male nel fatto che sia mancata.

Beninteso non sono né mi sento un eroe o un paladino dell’anti-social e non ritengo la mia scelta migliore di quella di chi, da genitore, ne compie una di segno diverso. Ma forse condividere le ragioni della mia può valere a rendere più consapevole quella di tanti neo-genitori che verranno perché, comunque, una scelta esiste e le abitudini dei più non valgono, per fortuna, a rendere necessitate le decisioni di tutti.

Nel mio caso tra il condividere con il mondo quelle decine di foto scattate in quei suoi primi istanti di vita e non farlo c’è stata solo una domanda: per chi lo sto facendo? Per lei, mia figlia, o per me?

E la risposta, all’unanimità, della coscienza dell’uomo e della testa dell’avvocato che si occupa da oltre vent’anni di Internet e privacy e che oggi siede nel Collegio del Garante per la protezione dei dati personali è stata: non per mia figlia, se lo facessi non lo farei per lei ma solo per me, per soddisfare il mio legittimo orgoglio di genitore ma, pur sempre, per un interesse egoistico.

Se lo facessi – mi son detto - starei scegliendo al posto suo di consegnare a Facebook e via Facebook al mondo intero il suo viso con a bordo un carico straordinario dei più delicati tra i dati personali di ciascuno di noi ovvero quelli biometrici e la starei trasformando in merce di scambio sul mercato globale, la starei espropriando della libertà di scegliere domani se quel suo primo meraviglioso giorno di vita debba appartenere alla sua sfera privata o alla sua sfera pubblica, la starei esponendo, forse, persino, al rischio di diventare, domani, il desiderio perverso di quella parte di disumanità che popola la Rete come popola, da sempre, la nostra società.

Naturalmente – come già detto – queste mie risposte non devono, necessariamente, esser quelle di chiunque altro, non sono obbligate, non hanno l’ambizione di esser universali; sono, evidentemente, fortemente condizionate da aspetti culturali, etici, sociali diversi. E quindi se qualcuno, a quella stessa domanda, ha risposto diversamente non c’è nessuno che possa dirgli che la sua risposta è sbagliata o che la mia è migliore della sua.

Ma i fatti son fatti e quelli sono oggettivi: le foto dei nostri figli condivise online sono destinate a diventare, nello spazio di una manciata di secondi, patrimonio comune eterno dell’umanità. Nessuno – noi e i nostri figli inclusi – potrà mai dirsi certo di riuscire a rendere di nuovo privato ciò che abbiamo reso pubblico.

E, soprattutto, non è possibile, oggi, sapere con certezza cosa, domani – e non domani per modo di dire ma domani per davvero – qualcuno, da qualche parte del mondo, sarà in grado di fare con i dati personali che affollano quelle fotografie.

I processi di educazione delle intelligenze artificiali che si stanno sviluppando in ogni parte del mondo si fondano sulla raccolta massiccia di qualsiasi contenuto postato online per ogni genere di finalità e i dati dei più piccoli, nel mercato pubblicitario, sono quelli che valgono di più. Senza dire che gli atti giudiziari di processi celebrati in ogni parte del mondo negli ultimi vent’anni raccontano che, purtroppo, il web – assieme a milioni di altre cose straordinariamente positive – è anche il più grande book fotografico dal quale i pedofili scelgono le loro vittime.

Io la foto di mia figlia, l’altro giorno, non l’ho condivisa e spero di non condividerla in futuro.

Nessun terrorismo, nessuna volontà di spaventare nessuno, né di convincere chicchessia che postare la foto di un neonato su un social sia un’attività pericolosa, incosciente o irresponsabile ma solo quella ferma e convinta di provare a fare in modo che, la prossima volta, come è successo a me, prima di cliccare su “condividi”, ci venga più facile porci qualche domanda: perché lo sto facendo? È la cosa giusta per mia figlia o mio figlio? Ne vale davvero la pena?

In bocca al lupo colleghi genitori. Il nostro, da sempre – e oggi più di sempre – è il mestiere più difficile del mondo anche perché sta a noi dare l’esempio e se noi condividiamo la foto nei nostri bimbi, loro, diventati adolescenti e poi adulti, potrebbero trovare normale condividere tutto della loro esistenza, anche ciò che sarebbe meglio restasse solo loro, per sempre.

di Guido Scorza (Fonte: The Huffington Post)

Note Autore

Guido Scorza Guido Scorza

Componente del Collegio del Garante per la protezione dei dati personali. Twitter: @guidoscorza

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