Per la violazione della privacy non basta la diffusione di dati sensibili in un processo civile
Se non è provato il danno non basta la diffusione di dati sensibili a fini difensivi in un processo civile perché si configuri il reato di violazione della privacy previsto dall'articolo 167 del Dlgs 196/2003. Lo ha precisato la III sezione penale della Cassazione con la sentenza 20 maggio 2019 n. 23808.
Il caso esaminato dai magistrati di legittimità riguardava il riscorso di un figlio che aveva denunciato il padre per avere prodotto in un processo civile la documentazione sanitaria relativa a una grave patologia psichiatrica del ragazzo. Il genitore aveva prodotto la documentazione per giustificare l'infondatezza della pretesa creditoria del figlio oggetto del processo. Una diffusione che secondo il ragazzo avrebbe determinato «un danno di natura non patrimoniale conseguente alla diffusione di dati afferenti alla sfera intima, nonché un danno patrimoniale, per avere indotto il convenuto opposto ad addivenire ad una transazione al fine di evitare la inevitabile soccombenza processuale».
Una tesi respinta dalla Cassazione che, rigettando il ricorso, ha formulato il seguente principio di diritto: «il necessario requisito del nocumento richiesto per configurazione del reato dell'art. 167 d.lgs 193/2003 non può ritenersi sussistente, in caso di produzione in un giudizio civile di documenti dati personali, ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa, in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una affettiva lesione dell'interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscrittta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale, sui quali incombe l'obbligo di riservatezza».
Fonte: Il Sole 24 Ore