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Questionari per candidature di lavoro con domande indiscrete, si rischia violazione Gdpr

Se state cercando lavoro e notate che nei questionari delle procedure di selezione del personale vi vengono fatte un po’ troppe domande, e magari qualcuna anche indiscreta, talvolta chi ha il compito di assumervi potrebbe davvero esagerare, rischiando pure una sanzione per violazione della privacy.

Un colloquio di lavoro


Secondo uno studio condotto da Wyser, l’80% degli head hunter effettua una ricerca online su ogni persona da cui riceve il curriculum, ma in certi casi neanche spulciare tutti i suoi profili social può soddisfare la smania di sapere ogni particolare sul conto dell’aspirante collaboratore, perciò l’invito ad un colloquio conoscitivo può trasformarsi in una specie di terzo grado con una serie di domande molto dettagliate.

Uno degli ultimi casi è quello di una società finlandese che sottoponeva a coloro che si candidavano per essere assunti (ma anche ai propri dipendenti) dei questionari mirati a raccogliere approfondite informazioni della loro privata, con domande sulle credenze religiose, sulle relazioni familiari, sulle condizioni di salute e anche sul possibile stato di gravidanza.

Se il Garante per la privacy della penisola scandinava non aveva mai fatto sanzioni sin dall’entrata in vigore del Gdpr, per la “Data Protection Ombudsman” si presentava quindi come un calcio di rigore da non fallire, e infatti lo scorso 18 maggio ha inflitto una multa di 12.500 euro alla società che pretendeva troppe informazioni non necessarie rispetto alle finalità perseguite della ricerca e selezione del personale e della gestione del rapporto di lavoro, violando in questo modo i princìpi di “necessità” e di “minimizzazione” sanciti dall’art.5 del Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali.

Nella foto: Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy

(Nella foto: Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy)

Aziende e cacciatori di teste sono quindi avvertiti, perché l’ombrello normativo del Gdpr è valido ed applicabile in tutti i 27 paesi dell’UE, Italia compresa, dove peraltro la disciplina dell’art.8 della Legge 300/1970 fa anche “divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore”, e alle grandi società che violano i princìpi del Regolamento UE potrebbe andare pure peggio rispetto all’azienda finlandese, perché le sanzioni possono arrivare fino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato.

Anche se può sembrare una contraddizione che vi sia il divieto di fare i raggi x ad un candidato attraverso i suoi profili social, dove spesso è il diretto interessato a rendere esplicitamente pubblici i propri orientamenti personali, fatto sta che le discriminazioni in base a quello che risulta online agli occhi del selezionatore ci sono eccome.

Ad evidenziarlo, era stato lo scorso anno uno studio condotto da Alessandro Acquisti e Christina Fong della Carnegie Mellon University, che nel loro esperimento hanno inviato ad oltre 4.000 aziende statunitensi delle candidature per reali opportunità di lavoro per conto di mille candidati, dimostrando che i datori di lavoro nelle aree repubblicane mostravano un significativo pregiudizio nei confronti dei candidati di fede islamica rispetto a quelli di confessioni religiose cristiane, e tale discriminazione era risultata ancora più marcata nelle aree democratiche, dove i musulmani hanno meno chances di essere chiamati ad un colloquio di lavoro rispetto ai cristiani.

di Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy (1° giugno 2020, Nòva Il Sole 24 Ore)

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