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Negli Usa niente privacy per chi lavora in smart working

Negli ultimi tempi il lockdown ha comportato un radicale e repentino ripensamento dell’organizzazione del lavoro per la necessità di tutelare la salute delle persone, e il ricorso massivo allo smart working sembra pure aver aperto nuove frontiere che potrebbero influire sulla nuova normalità delle imprese.

Donna preoccupata per il monitoraggio del proprio titolare che subisce lavorando da casa

Senza dubbio il “lavoro agile” può pure comportare notevoli vantaggi come la maggiore autonomia e la libertà del lavoratore, il risparmio di denaro sulle spese di trasporto e del tempo che normalmente occorre per recarsi in ufficio, ma anche un potenziale miglioramento dell’equilibrio tra lavoro e vita privata.

Negli Stati Uniti, giganti della tecnologia come Google, Facebook e Twitter hanno comunicato la loro intenzione di voler consentire ai propri dipendenti attualmente in smart working di continuare a lavorare da casa anche una volta che sarà finita l’emergenza, ma non è sempre tutto oro quello che luccica.

Senza sufficienti tutele sulla privacy, il rischio di trovarsi sorvegliati e vessati tra le mura domestiche è infatti molto più insidioso di quello che si possa pensare.

Come riporta il New York Times, ci sono molte società oltreoceano che stanno richiedendo di installare strumenti di controllo sui computer dei propri dipendenti che lavorano da casa per controllare ogni minuto della loro giornata lavorativa.

Per esempio, da inizio marzo sono triplicati i download di “Hubstaff”, un software in grado di fornire al datore di lavoro un resoconto ogni 10 minuti di tutto ciò che fa il dipendente, tenendo traccia dei movimenti del mouse e delle digitazioni sulla tastiera, registrando la cronologia delle pagine web visitate (compreso il tempo trascorso sui social network), ed elaborando un punteggio di produttività del lavoratore sulla base di tutte le attività rilevate.

Alle legittime obiezioni sull’invasività di questa applicazione, il fondatore e Ceo di Hubstaff, Dave Nevogt, ha risposto: “Il mondo sta cambiando, i lavoratori sono consapevoli di essere monitorati, quindi il programma non viola la loro privacy”.

Un’altra app che molte aziende americane chiedono di scaricare ai dipendenti sui loro smartphone è “TSheets”, che tiene sotto controllo la loro posizione mediante geolocalizzazione per accertare che si trovino effettivamente nella loro abitazione durante l’orario d’ufficio.

Altri datori di lavoro hanno invece iniziato a utilizzare un software chiamato “Time Doctor”, che permette al capo di visualizzare in remoto gli schermi dei computer dei dipendenti mentre lavorano, consentendo anche alla webcam del pc di scattare una foto dell’impiegato ogni 10 minuti. E se si rimane inattivi per qualche minuto, come per andare in bagno o altre necessità, sul monitor appare un pop-up che avverte di dover riprendere a lavorare entro 60 secondi se si vuole evitare la decurtazione del tempo perso dalla busta paga.

Anche se l’imposizione di tali software ai dipendenti in smart working può sembrare invadente, negli Stati Uniti non è illegale, perché non vi sono molte tutele legali sul controllo a distanza dei lavoratori, e le leggi federali non lo vietano.

Anzi, in alcuni stati non è neanche richiesto che i lavoratori vengano avvisati preventivamente quando vi è intenzione di assoggettarli a tecniche di monitoraggio. Ciò non toglie che si stiano osservando crescenti malumori trai dipendenti che vengono costantemente controllati, e di questi tempi negli Usa il lavoro da casa non sembra più un’opportunità così appetibile.

In Italia la situazione è ben diversa, e una ricerca svolta da un sindacato ha evidenziato che degli 8 milioni di persone che attualmente lavorano da casa il 60% vorrebbe proseguire anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria. Negli ultimi anni le tutele sui controlli a distanza hanno retto anche alla prova della riforma del Jobs Act, e anche nei giorni scorsi il Garante per la Privacy Antonello Soro, in audizione in Commissione Lavoro al Senato ha ribadito che il ricorso intensivo alle nuove tecnologie “deve avvenire nel pieno rispetto delle garanzie sancite dallo Statuto dei Lavoratori a tutela dell’autodeterminazione”, precisando che non sarebbe legittimo fornire per lo smart working un computer al lavoratore dotato di funzionalità che consentano al datore di lavoro di esercitare un monitoraggio sistematico e pervasivo dell’attività compiuta dal dipendente.

Mentre negli Stati Uniti le persone possono rivendicare ben poco della loro sfera privata quando sono sul lavoro, in Italia quindi le tutele sulla privacy rimangono ancora un caposaldo del nostro ordinamento giuridico.

di Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy, (Nòva Il Sole 24 Ore)

Note sull'Autore

Nicola Bernardi Nicola Bernardi

Presidente di Federprivacy. Consulente del Lavoro. Consulente in materia di protezione dati personali e Privacy Officer certificato TÜV Italia, Of Counsel Ict Legal Consulting, Lead Auditor ISO/IEC 27001:2013 per i Sistemi di Gestione per la Sicurezza delle Informazioni. Twitter: @Nicola_Bernardi

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