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Il 34% degli esperti in materia di privacy è donna, ma per equilibrare il gender gap si può fare ancora molto

La (dis)parità di genere, il cosiddetto “gender gap”, è un tema sempre più attuale. Secondo l’ultima analisi annuale del World Economic Forum lo scorso anno l’Italia ha perso 16 posizioni, piazzandosi al 79 posto nel mondo con uno score di 0,705 (dove 1 indica la piena parità).

Di che genere è la privacy? il 34% dei soci Federprivacy è donna

Fra i più immediati corollari al gender gap vi sono a) la minore presenza delle donne nelle posizioni manageriali e di vertice delle organizzazioni nonché in alcuni settori formativi e professionali (a partire dalle aree STEM) e b) il gender pay gap. Più in generale, un minore equilibrio di genere impatta sulle culture sociali e organizzative, inaridendo la positività derivante dal melting pot dei diversi valoriali punti di vista.

Nel 1999 la manager Kathy Matsui coniò il termine Womenomics, poi ripreso da The Economist, secondo cui oltre che per ottemperare a un principio di equità, la maggior partecipazione delle donne al mondo del lavoro comporta anche efficienza economica. L’ONU, le istituzioni europee e quelle italiane hanno nella loro agenda la questione generale della parità di genere.

In questa sede si vuole fornire un quadro di massima sul fenomeno del gender gap nell’ambito della privacy e individuare alcune azioni minimali che, aldilà di iniziative pubbliche di più ampia portata a favore della parità, potrebbero condurre ad un diverso baricentro il rapporto fra persone di diverso sesso.

Partendo dalle Autorità Garanti dei Paesi dello SEE, va oltre il 50% il gruppo delle donne a cui è stata assegnata la posizione apicale; numerose sono poi le posizioni ricoperte da specialiste della privacy nell’ambito dei relativi board, come nel caso della professoressa Ginevra Cerrina Feroni, vice presidente del Garante italiano, e che giungono come nel caso del board di 18 esperti della francese CNIL alla presenza di un numero eguale di donne – fra cui la presidente M.L. Denis - e di uomini.

Di sesso maschile è il Garante europeo della protezione dei dati (EDPS) mentre donna è la presidente dell’European Data Protection Board, che promuove la cooperazione fra i Garanti nazionali, i cui rappresentanti ne fanno parte assieme al Garante europeo e ai tre componenti dell’EDPB.

Guardando al sub-gruppo composto dai primi cinque Paesi per abitanti dell’UE – nell’ordine: Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia, che rappresentano circa due terzi della popolazione dell’area – la percentuale scende al 40%. Il gender gap a livello paneuropeo pur presente, quindi, sembra palesarsi in termini potenzialmente non insuperabili: una più equilibrata diversità di genere tra i responsabili della privacy è un segnale importante verso una maggiore equità e una comprensione più ampia delle sfide della privacy nell'era digitale per migliorare le strategie di protezione dei dati a beneficio di tutti.

Informazioni più robuste, propedeutiche a eventuali interventi per ricercare un più paritario baricentro di genere nel contesto della privacy, potrebbero rivenire da una base dati più ampia che esiste ma non è pubblica, quale è l’elenco dei Responsabili della Protezione dei Dati (Data Protection Officer) disponibile presso ciascuna della Autorità privacy nazionali. Il solo dato pubblicamente disponibile, per l’Italia, è il numero di 68.255 segnalazioni attive dei RPD rese note al 30 settembre 2023. Si tratta di una base dati ampia in cui, al netto dei RPD esterni che siano persone giuridiche, potrebbero essere analizzate la connotazione, in funzione dei dati delle coorti di RPD dei due diversi generi, del grado di gender equality con riguardo ai RPD interni e a quelli esterni persone fisiche.

A livello europeo la base dati complessiva consentirebbe di avere una panoramica ampia del fenomeno e delle sue connotazioni territoriali.

Volgendo lo sguardo al nostro Paese, è interessante osservare la lista delle persone che si sono candidate nel 2019 a far parte dell’Autorità Garante per la privacy. Sono complessivamente pervenute meno di 200 candidature presso ciascuna delle due Camere del Parlamento, in gran parte presentate presso entrambe. Le candidate donne in ambo i casi sono state però circa il 25% del totale: nell’ipotesi che abbiano partecipato le persone più attente e motivate alla privacy, questa è una percentuale che dovrebbe far riflettere e che fra le motivazioni potrebbe avere anche quello di una maggiore tendenza autocritica delle donne rispetto alle proprie potenzialità rispetto al mondo maschile, pur a parità di skills.

Di maggior spessore l’interesse professionale delle donne alla materia desumibile dalla base sociale di Federprivacy – ad oggi la più ampia base-dati consultabile liberamente online sulle persone interessate alla privacy - in cui le esperte femminili costituiscono una quota del 34% sul totale dei soci, con punte del 41% per la Lombardia e con sostanziale parità in Umbria. Considerando poi le sei regioni con almeno 150 iscritti (Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Toscana e Veneto, in cui opera il 70% degli iscritti a Federprivacy), la quota delle donne si attesta intorno al 36%. È una quota, quest’ultima, che sottolinea una robusta ma incrementabile presenza nell’ecosistema privacy di competenze femminili.

Considerando poi che la “compagine” che si raggruppa intorno a Federprivacy è presumibilmente rappresentativa di quella più attenta e sensibile per cultura e professione alla privacy, si coglie lo spunto, se non l’esigenza, di promuovere iniziative – specie oltre la community Federprivacy - per una maggiore partecipazione delle donne nel sistema Paese, con particolare attenzione alle giovani risorse, che può solo rafforzare la tutela generale dei dati personali.

Ci sono vari strumenti, anche a costo prossimo allo zero, che le singole organizzazioni e associazioni possono perseguire, a prescindere da una auspicabile parallela una azione pubblica, per contribuire alla realizzazione di una sostanziale gender equality.

Strumenti di carattere generale (utilizzabili non solo in campo privacy) che si rivelerebbero senza dubbio efficaci potrebbero essere ad esempio: 1) promuovere iniziative su tematiche privacy legate alla condizione femminile (da webinar a seminari e corsi universitari a partnership con organizzazioni femminili dei diversi settori produttivi); 2) prevedere esperienze di lavoro per la compagine femminile di ciascuna organizzazione presso le rispettive unità organizzative privacy e/o in affiancamento al RPD ; 3) promuovere iniziative di ricerca sulla privacy e la presenza femminile nonché borse di studio, premi di tesi di laurea ed altre agevolazioni su tematiche privacy, rivolti alle donne.

Sono indicazioni minimali, certo, ma che possono aumentare la consapevolezza della materia nei contesti universitari, ove si formano le professioniste e i professionisti di domani, nonché presso le organizzazioni più avvertite e sensibili alla positività dell’inclusione e della valorizzazione di diversi punti di vista. Non dimenticando che essere specialisti privacy implica disporre di un mix di competenze professionali di cui, specie nel caso dei RPD, dovrebbe far parte la capacità relazionale e di ascolto, l’empatia e il saper negoziare per arrivare a soluzioni praticabili (e privacy compliant): e forse questa tensione a una logica di coinvolgimento, win-win, nella cultura maschile è meno sviluppata. Inoltre, occorre ricordare che la cronaca nera spesso, troppo spesso, viene alimentata da casi in cui la privacy delle donne viene violata con esiti a volte estremi: un approccio professionale alla privacy che non trascuri un punto di vista dal lato delle donne non potrebbe che arricchire la complessiva lotta a tali violazioni e la tutela, in generale, della privacy.

In conclusione, un equilibrio di genere riflette un cambiamento positivo e necessario verso una maggiore inclusività e diversità nei ruoli decisionali, specialmente in un campo con connotazioni tecniche, giuridiche e organizzative come quello della protezione dei dati personali. Accrescere la presenza di donne in queste posizioni non solo promuoverebbe la parità di genere ma porterebbe anche a una maggiore varietà di prospettive e approcci nella gestione delle questioni relative alla privacy, un aspetto cruciale in un'epoca dominata dalla digitalizzazione e dai grandi dati.

E la diversità di genere nelle organizzazioni che trattano dati personali ovvero forniscano consulenza nonché in quelle che supervisionano la protezione dei dati può anche influenzare positivamente le politiche e le pratiche in materia di privacy, assicurando che siano considerate le esigenze e le prospettive di un ampio spettro di persone. Questo è particolarmente importante in un contesto in cui si sta affermando una Intelligenza Artificiale (AI) in forme sempre più pervasive, dove la privacy rischia di essere solo l’ultima barriera ad essere abbattuta.

Note Autore

Pasquale Mancino Pasquale Mancino

Componente del Gruppo di Lavoro per la privacy nella Pubblica Amministrazione. Nota: Le opinioni espresse sono a titolo esclusivamente personale e non coinvolgono l’Ente di appartenenza dell’autore

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