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Il "trucco" di Google per proteggere 20 miliardi di dollari dalle leggi sulla privacy

Dopo Facebook, è il turno di Big G. Anche Google è finita nel mirino di polemiche internazionali per i suoi tentativi di attenuare (o aggirare) gli impatti della Gdpr, il regolamento europeo su gestione dei dati e privacy che avrà efficacia dal prossimo 25 maggio.

In particolare, secondo le contestazioni di alcune agenzie di marketing Usa, il gigante di Mountain View starebbe cercando di mantenere il controllo sui dati raccolti “da terzi” (third party data, le informazioni estratte da altre piattaforme e siti web che si appoggiano a Google), senza adeguarsi alle norme europee che imporranno un consenso esplicito su qualsiasi dato ottenuto. Una strategia che si scontra con l'intero impianto della Gdpr, basata sul principio di fornire agli utenti una maggiore padronanza delle informazioni che li riguardano.

Big G proteggerebbe così una fetta di business che genera circa 20 dei 110 miliardi di dollari di ricavi annui, rassicurando gli investitori sulla profittabilità del suo targeted advertising (le pubblicità mirate) anche dopo l'applicazione delle nuove leggi europee. L'azienda californiana presenterà questa sera i suoi conti trimestrali ed è probabile che la compliance rispetto alla Gdpr sarà uno degli argomenti più caldi nelle domande degli investitori. Senza escludere un faro in più dalla Commissione europea, già alle prese con il datagate di Facebook e le richieste di maggiore chiarezza al suo fondatore Mark Zuckerberg.

Come nel caso di Facebook, le contestazioni colpiscono nel vivo una delle principali fonti di entrate per il gigante californiano. Google monetizza i suoi servizi con la pubblicazione di inserzioni direttamente sulla sua piattaforma o attraverso l'utilizzo di sue tecnologie da parte di terzi. In altre parole, i ricavi arrivano sia dalla vendita di spazi pubblicitari sui suoi canali (dalla posta elettronica di Gmail ai video di YouTube) sia dall'incorporazione in siti esterni dei suoi sistemi di advertising online (come Adsense, un servizio di banner pubblicitari che può essere posizionato su qualsiasi portale).

In vista della applicazione della Gdpr, a quanto si è appreso da un post pubblicato a fine marzo, Big G aggiornerà le sue policy in maniera tale che i suoi inserzionisti siano obbligati a una maggiore trasparenza nel richiedere il consenso agli utenti. Dal canto suo, Google si propone nella veste di «controller» (controllore) di tutti i dati veic0lati attraverso i suoi canali, accreditandosi la possibilità di decidere come e perché saranno utilizzati. Ed è qui che insorgono i concorrenti, penalizzati da un ruolo di subalternità che assegna ancora più poteri nelle mani di Google. Di fatto, i piccoli inserzionisti dovrebbero sobbarcarsi tutte le responsabilità mentre Big G si limiterebbe a esercitare il suo dominio sulle informazioni veicolate. Senza dover rendere conto di come e perché ha fatto uso dei dati confluiti nel suo circuito grazie al lavoro di altri.

Digital Content Next, un'associazione americana di publisher (le agenzie che pubblicano contenuti online), ha commissionato un parere legale dove si accusa Google di non rispettare i requisiti di «trasparenza, specificità e granularità» imposti dalla Gdpr circa l'uso dei dati sui propri utenti. Ipotesi che costerebbe all'azienda sanzioni nell'ordine dei miliardi di dollari e dubbi dei suoi stessi azionisti sul modello di business che garantisce, secondo le stime degli analisti, circa un quinto del giro d'affari dell'azienda. Digital Content Next contesta Google anche per l'imposizione di un accordo «prendere o lasciare» alle aziende che pubblicano contenuti sulla sua piattaforma, generando le entrate miliardarie del motore di ricerca e della holding (Alphabet) che lo controlla.

Google, si legge in un post del gruppo, «ha unilateralmente imposto le sue condizioni e spera che l'industria le accetti così come sono - si legge - Invece che comportarsi come un buon partner, Google sta offrendo un approccio “prendere o lasciare” che rinforza la sua posizione dominante». Le accuse di monopolio dovrebbero far drizzare le antenne alla Commissione europea, già protagonista della più alta multa mai inflitta dall’antitrust europeo: 2,4 miliardi di euro, comminati nel 2017 per aver favorito le inserzioni del suo servizio Google Shopping. All'epoca l'imputazione era di aver messo in evidenza gli annunci gestiti dal suo servizio interno, a discapito di quello dei concorrenti. Oggi la tesi è simile, anche se l'oggetto “monopolizzato” non sono più le pubblicità. Ma gli utenti.

Fonte: Il Sole 24 Ore

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