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«Ci vogliono vent'anni per costruirsi una reputazione e cinque minuti per perderla. Se lo tieni a mente agirai in maniera diversa», Warren Buffett. La tutela del buon nome, dell'onore, della reputazione non è certamente un'invenzione del XXI secolo. Ma con l'esplosione dell'universo digitale sta assumendo un'importanza sempre maggiore. Ormai non c'è attività economica che non sia soggetta a un'infinità di rating reputazionali che, in definitiva, decideranno del suo successo o del suo fallimento.

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La ragnatela dei data-base reputazionali e della rete internet è impegnata da anni in attività di rating e scoring. Al nome e cognome di una persona si abbinano report che formulano sintetiche espressioni valutative, da cui dipende la possibilità di avere un finanziamento o un mutuo. Il profilo virtuale rintracciabile on line è sfornato da siti che offrono risposte immediate e gratuite. La quantità delle informazioni è enorme, non sempre la loro qualità. E bisogna aggiungere che la capacità delle leggi e delle tutele per l'interessato non sempre raggiunge gradi apprezzabili di effettività.

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Le recensioni online di professionisti e imprese finiscono sempre più spesso sotto la lente dei giudici e delle autorità di controllo. Sotto accusa le critiche false, esagerate o tendenziose che possono integrare ipotesi di diffamazione aggravata, truffa o concorrenza sleale. Mentre Amazon il mese scorso ha cancellato oltre 20 mila false recensioni scritte in cambio di denaro e finite al centro di un’inchiesta ai suoi danni nel Regno Unito, in Italia le cose non vanno meglio. Truffe, diffamazioni, concorrenze sleali stanno diventando un problema e un costo anche per i professionisti.

Il presidente di Federprivacy intervistato su Rai 4

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