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Rischia una condanna per diffamazione aggravata chi insulta altri su Facebook, anche se magari pensa di farla franca solo perché evita di fare il nome della persona offesa. Se infatti gli aggettivi usati sono sufficienti per individuare la persona presa di mira, non sarà poi possibile nascondersi dietro un dito per sottrarsi alle proprie colpe. È il caso di una donna che sul noto social network aveva scritto offese pesanti riferendosi a una conoscente definendola in modo sprezzante “nana” e “spazzina”.

Il Wall Street Journal ha pubblicato pochi giorni fa un articolo a firma Sam Schechner che annuncia un vero e proprio terremoto nel modello di business che è alla base dei successi di Meta e delle piattaforme ad essa ricollegabili. Inoltre l’annuncio del WSJ costituisce anche una notizia importante circa il ruolo che sempre più sta assumendo lo European Data Protection Board nell’applicazione del Gdpr anche rispetto ai meccanismi di controllo e coerenza tra le Autorità di controllo sull’uso dei dati personali.

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Facebook deve rimuovere i post del cui contenuto diffamatorio è pienamente consapevole. In caso contrario deve essere sanzionata sul piano pecuniario. A questa conclusione approda il Tribunale di Milano, Prima sezione civile, con sentenza con la quale Facebook è condannata al risarcimento danni nei confronti di Snaitech per non avere tempestivamente cancellato una serie di contenuti diffamatori pubblicati nelle pagine «Truffa Snaitech» e «Snaitech Truffa».

Porta aperta alle class action e alle richieste danni contro il social network che esagera sulla gratuità dei servizi offerti agli utenti digitali. I dati personali sono inseriti in un circuito di sfruttamento commerciale e tutto questo va chiarito fin da subito. Se, invece, si pone l'accento magnificando la gratuità del servizio, allora si commette pubblicità ingannevole. E l'Antitrust applica la relativa sanzione pecuniaria e può obbligare a diffondere un comunicato che metta in evidenza la scorrettezza. Così come è capitato a Facebook, cui l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha applicato una sanzione di 5 milioni di euro, obbligando a pubblicare un avviso in cui dichiara di avere violato il codice del consumo, per mancata adeguata informazione agli utenti. Le sanzioni sono state confermate dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2631 del 29/3/2021.

La Corea del Sud ha inflitto sanzioni milionarie alle società Alphabet e Meta per violazione della normativa coreana sulla privacy.  A renderlo noto con un comunicato stampa è stata la stessa Commissione per la protezione delle informazioni personali del Paese, che ha inflitto ad Alphabet una multa di un importo pari a 49,8 milioni di dollari e una a Meta di circa 22 milioni di dollari.

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I dati personali degli utenti non possono essere utilizzati dalle piattaforme digitali per la pubblicità senza un limite di tempo e senza prestare attenzione alla natura dei dati stessi. Lo ha sancito la Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue), il più alto grado di giudizio comunitario, emettendo una sentenza su un caso intentato dall’attivista austriaco Maximilian Schrems.


L'amministratore di una fanpage su Facebook è responsabile assieme a Facebook del trattamento dei dati dei visitatori della sua pagina. Questo l’esito della sentenza emessa dalla Corte Ue nella causa C-210/16. L'autorità per la protezione dei dati dello Stato membro in cui tale amministratore ha la propria sede può agire, in forza della direttiva 95/46 , sia nei confronti di quest'ultimo sia nei confronti della filiale di Facebook stabilita in tale medesimo Stato.

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La tutela della privacy potrebbe rendere più complicato anche mettere un «like» su Facebook. E, di conseguenza, impattare sulle strategie delle aziende che vendono sul web. Lo lascia prevedere la sentenza con cui ieri la Corte Ue ha deciso sulla causa C-40/17, stabilendo che il gestore di un sito internet in cui è possibile cliccare sull’icona «like» può essere ritenuto responsabile della raccolta e della trasmissione dei dati personali dei visitatori insieme con Facebook.

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Per anni, Facebook ha dato ad alcune delle più grandi aziende tecnologiche al mondo un accesso privilegiato ai dati personali degli utenti. Una specie di pacchetto all inclusive, dove gli optional erano le informazioni riservate di milioni di persone. Una procedura che è andata ben al di là di quelle che sono le regole sulla privacy. A rivelarlo, con un'inchiestache al cospetto la storia di Cambridge Analytica sembra un romanzo estivo, è il New York Times.

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Facebook avrebbe tentato di esercitare pressioni su diversi politici in varie parti del mondo affinché facessero lobbying a favore dell'azienda contro le leggi sulla protezione dei dati. Lo scrive l'Observer, citando nuovi documenti che il settimanale insieme con la pubblicazione Computer Weekly ha preso in visione. Tra i politici citati l'ex cancelliere dello Scacchiere britannico, George Osborne, e l'ex premier irlandese, Enda Kenny.

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