Oblio oncologico, una battaglia di civiltà che non si può perdere
Un milione di persone, per i medici, ce l’hanno fatta: hanno sconfitto un tumore, stanno bene, possono – ma purtroppo sono costretto a scrivere potrebbero – tornare a vivere come tutti gli altri. Eppure glielo impediamo. Glielo impediscono i mercati, glielo impedisce la società sbagliata nella quale viviamo, glielo impedisce l’inciviltà delle regole del profitto che ha la meglio sulla civiltà dei diritti.
Quando chiediamo un mutuo, un finanziamento, una polizza assicurativa – solo per fare qualche esempio pescato in un elenco che sarebbe più lungo di quanto, ormai, siamo disponibili a leggere - infatti, dall’altra parte, ci si chiede di dichiarare se e di quali patologie, tra l’altro oncologiche, soffriamo o abbiamo sofferto. La ragione è evidente: nessuna impresa scommette su una persona che non sta bene e alla quale la salute potrebbe impedire di soddisfare le proprie obbligazioni o che potrebbe determinare costi per l’assicurazione superiori ai premi. Passi, per quanto suoni crudele, cinico e freddo, per le patologie dalle quali siamo affetti e che, in effetti, potrebbero avere un impatto sull’esecuzione del contratto. Ma non anche per quelle con le quali ci siamo battuti in passato, con quelle che abbiamo sconfitto, con quelle che non ci sono più e che non possono avere nessun impatto concreto con l’esecuzione del contratto.
Non dico che chi ce l’ha fatta e chi è uscito da una battaglia tanto difficile meriterebbe che la società, nel suo insieme, si schierasse senza riserve dalla sua parte, lo supportasse, le o gli spianasse la strada, inclinasse il piano della sua vita nella direzione giusta, cosa che, pure, probabilmente, potrebbe rientrare in quei doveri di solidarietà sociale che ispirano la nostra costituzione e dei quali, così spesso, ci riempiamo la bocca. Ma, almeno, che avercela fatta e aver sconfitto un tumore non sia un titolo di demerito, non sia un pregiudizio, non sia un marchio a fuoco che impedisce il ritorno alla normalità, che rende il protagonista di una vicenda di per sé inesorabilmente dolorosa figlio di un Dio minore, un elemento di discriminazione disumana. E, purtroppo, è esattamente quello che accade oggi.
Assicurazioni, banche e una pletora di altri soggetti chiedono e, anzi, esigono di sapere non solo se siamo malati, ma anche se lo siamo stati – almeno di certe patologie – e se ne siamo usciti e lo esigono a prescindere dal tempo passato da quando ce l’abbiamo fatta, a prescindere da quello che dicono scienza e medicina circa le reali prospettive di vita, lo esigono e basta perché tutelare il proprio patrimonio sembra contare più di tutto e, nel dubbio – persino dove il dubbio non c’è o non dovrebbe esserci – meglio considerare una persona a rischio, anche se non lo è.
È un fenomeno odioso come pochi altri e del quale si parla troppo poco. È un insulto all’etica del mercato, alla civiltà giuridica, all’umanità e alla dignità della persona.
Mentre chiediamo a gran voce più etica, più regole, più rispetto per i diritti da parte delle intelligenze artificiali, forse, in casi come questo, faremmo bene a esigere lo stesso anche dagli uomini e dalle imprese. Tanto dovrebbe bastare per dire che da domani mattina nessuno chieda più a nessuno con quale patologia ha fatto i conti in passato se ne è guarito, perché non è giusto che chi ce l’ha fatta debba ritrovarsi costretto a scegliere se mentire o infilarsi in una battaglia legale infinita per difendere il suo sacrosanto diritto a non dire. Nella certezza che, comunque vada, ne uscirà sconfitto perché per un verso sarà stato costretto a dire almeno di esser guarito da una qualche patologia e, per altro verso, chi sta dall’altra parte, gli negherà comunque la polizza, il finanziamento, il mutuo o, magari, il lavoro. Ma giacché, purtroppo, verosimilmente tanto non basterà e il domani degli ex malati oncologici non sarà diverso solo in nome dell’etica e della civiltà giuridica che pure dovrebbero ispirare i comportamenti di uomini e aziende, allora vale la pena di ricordare che la disciplina sulla privacy vigente in tutta Europa dice con chiarezza insuperabile che nel trattare i dati personali di chicchessia, a guidare chi li tratta devono essere, tra gli altri, i principi di proporzionalità, minimizzazione e necessità, oltre ovviamente a quello di liceità.
(Nella foto: Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali)
Trattare un dato come quello relativo a una patologia dalla quale si è guariti e che su base medico-scientifica non rende un soggetto più a rischio di chi non ha mai sofferto della stessa patologia è illecito. Full stop, come dicono gli inglesi.
L’Italia, però, è il Paese nel quale si tende a considerare lecito, se nell’interesse del più forte, tutto quello che non è espressamente vietato e, allora, forse è utile fare il tifo per quei disegni di legge che hanno da poco iniziato la loro corsa in Parlamento, attraverso i quali si mira a mettere definitivamente nero su bianco il c.d. diritto all’oblio oncologico, ovvero il diritto a che la società si dimentichi dei tumori sconfitti e garantisca alle persone che li hanno superati il diritto a una vita normale per davvero: a fine 2022 sono state presentate alla Camera due proposte di legge, la n. 413 del 19 ottobre a prima firma Maria Elena Boschi e la n. 690 del 6 dicembre a prima firma Walter Rizzetto - il cui iter è stato avviato in commissione Affari Sociali lo scorso aprile - e il 21 marzo 2023 il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) ha presentato alle Camere un analogo disegno di legge. Nell’Unione europea cinque Paesi (Francia, Lussemburgo, Olanda, Belgio e Portogallo) hanno già stabilito regole che vanno in questo senso. È una battaglia di civiltà giuridica che non si può perdere.
di Guido Scorza - Fonte: huffingtonpost.it