Ecco come i nostri dispositivi elettronici ci ascoltano invadendo la nostra privacy
Siamo sicuri che i nostri dispositivi elettronici ci ascoltino? Ecco una domanda che sembra venire da un film di fantascienza o da un thriller tecnologico, ma in realtà è una questione che oggi ci riguarda tutti, nessuno escluso. Alzi la mano chi non ha mai sospettato che il proprio telefono – o il proprio assistente vocale, quello che risponde a “Ehi, Siri” o “Ehi, Alexa” – stesse captando conversazioni per poi proporci pubblicità mirate.
(Nella foto: Paolo Romani, Delegato Federprivacy nella provincia di Lodi)
Non è un pensiero assurdo: in effetti, esistono dei sistemi attivi di ascolto continuo nei nostri dispositivi. Ovviamente, sono progettati ufficialmente solo per captare il nostro comando vocale e attivarsi quando necessario, ma ci si chiede se non raccolgano anche informazioni aggiuntive.
Dati, parole, ricerche: ogni nostra interazione potrebbe essere una piccola tessera che, messa insieme a tutte le altre, crea un mosaico piuttosto dettagliato del nostro comportamento. Ma come funziona tutto ciò? E perché sembra che questi dispositivi “capiscano” i nostri bisogni ancor prima che ce ne rendiamo conto? Entriamo insieme in questo mondo, che mescola tecnologia avanzata, psicologia e anche una buona dose di strategia pubblicitaria.
Iniziamo dai sistemi di ascolto. Non è un mistero che i nostri smartphone o i dispositivi di assistenza vocale abbiano microfoni sempre attivi, anche se in uno stato “dormiente”, pronti a risvegliarsi quando pronunciamo certe parole chiave.
Questi sistemi di riconoscimento vocale si attivano appena rilevano un comando specifico, come il classico “Ehi, Siri” o “Ehi, Google”, e solo in quel momento dovrebbero iniziare a registrare e interpretare le nostre richieste. L’idea di fondo è che il dispositivo sia pronto a rispondere e a fornirci assistenza immediata: una comodità che siamo ormai abituati a dare per scontata.
Ma cosa succede realmente quando questi dispositivi sono in modalità ascolto? Sebbene molte aziende assicurino che la registrazione e l'analisi avvengano solo dopo l'attivazione, diversi esperti e studi suggeriscono che alcuni dati potrebbero essere processati anche al di fuori di questa finestra di attivazione. La motivazione ufficiale è che servirebbero a migliorare il sistema, affinando il riconoscimento delle parole chiave e migliorando l’efficacia dell’assistente. Eppure, la tentazione di utilizzare questi dati per altri scopi, come ad esempio il targeting pubblicitario, è una realtà.
Ed ecco il punto: la profilazione pubblicitaria. Google, Meta (ex Facebook), Amazon e altre grandi compagnie hanno costruito i loro imperi anche grazie alla pubblicità mirata, ovvero quella pubblicità che non solo raggiunge l’utente giusto, ma gli propone proprio ciò di cui ha bisogno in quel momento specifico. Un capolavoro di precisione che inizia da una raccolta di dati imponente.
Tutto quello che clicchiamo, cerchiamo, postiamo o anche semplicemente visualizziamo potrebbe diventare un tassello della nostra identità online, un’informazione utile a costruire il nostro profilo di consumatore. Alcuni esperimenti condotti proprio da Google hanno dimostrato come l’analisi delle ricerche online potesse addirittura prevedere l’andamento del mercato finanziario, rilevando fluttuazioni basate sugli interessi collettivi degli utenti. Un indizio su quanto questi dati siano potenti.
Google, per esempio, ha studiato a fondo il comportamento d’acquisto dei consumatori, analizzando il cosiddetto “messy middle” (il “caos intermedio”), una fase complessa tra il momento in cui ci viene il desiderio di comprare qualcosa e l’azione finale di acquisto. In questa fase esploriamo e valutiamo le opzioni, spesso influenzati da bias cognitivi come la prova sociale (pensiamo che un prodotto sia buono perché tanti lo comprano) o la scarsità (pensiamo di dover affrettare l’acquisto perché sembra che il prodotto stia per esaurirsi). Meta, dal canto suo, ha sviluppato modelli di machine learning in grado di prevedere i comportamenti d’acquisto, migliorando costantemente l'efficacia della pubblicità per i suoi inserzionisti.
Nonostante sia chiaro che i dati dei nostri dispositivi e delle nostre ricerche possano essere usati per fini commerciali, emerge una questione ancor più interessante: questi sistemi possono addirittura prevedere i nostri bisogni? Se ci fermiamo a pensarci, la risposta potrebbe essere sì, anche se in maniera indiretta. La cosiddetta “Big Tech”, infatti, non solo raccoglie dati sugli utenti, ma utilizza sistemi predittivi capaci di aggregare e analizzare enormi quantità di informazioni in modo da fare previsioni sul comportamento futuro, spesso basate su tendenze di gruppi simili al nostro.
Ecco allora che la tecnologia diventa un po’ “sensitiva”. Grazie alla profilazione e all’analisi di grandi moli di dati, un’intelligenza artificiale avanzata può anticipare ciò che potremmo volere, o persino pensare.
Gli algoritmi non leggono nel pensiero, è vero, ma si avvicinano molto quando confrontano i nostri comportamenti con quelli di persone che, come noi, fanno parte di una certa nicchia o gruppo d’acquisto. Per esempio, se un algoritmo “nota” che a un certo gruppo di persone piace leggere di tecnologie nuove e innovazioni, potrebbe proporre a ogni singolo individuo di quel gruppo contenuti e prodotti legati a questi interessi, indipendentemente dal fatto che l’utente abbia mai cercato qualcosa di simile.
La profilazione predittiva si basa su correlazioni: più dati ha l’algoritmo, più preciso diventa. Ad esempio, Google può prevedere una fluttuazione del mercato azionario semplicemente osservando un aumento nelle ricerche di determinati termini finanziari; allo stesso modo, Meta potrebbe intuire che stiamo per prenotare una vacanza se iniziamo a cercare hotel o leggiamo articoli sulle destinazioni più ambite. Ed è un po’ come avere un consigliere personale, che però non chiede direttamente a noi cosa vogliamo, ma lo deduce da quello che facciamo o osserviamo.
Ovviamente, questo livello di “intuizione” non è magia, ma deriva dall’elaborazione massiccia dei dati e dalla creazione di modelli predittivi. Si tratta di algoritmi molto sofisticati, che aggregano in maniera quasi invisibile i comportamenti di milioni di persone, trovando similitudini, pattern e quindi previsioni sempre più precise. E qui viene la parte affascinante, ma anche un po’ inquietante: il fatto che questi modelli, in fondo, non vedano noi come individui unici, ma come parte di un gruppo di cui osservano e imitano i comportamenti. In un certo senso, anticipano i nostri bisogni non perché ci conoscano davvero, ma perché sanno bene come funziona il “gruppo” al quale apparteniamo.
Tutto questo porta gli addetti ai lavori a una riflessione su chi possiede veramente i nostri dati e su come questi vengano utilizzati. Il documento sul "data breach" o "violazione dei dati" lo ricorda bene: ogni volta che un dato personale viene distrutto, perduto, modificato o diffuso senza consenso, si parla di violazione della privacy. In molti casi, però, ci ritroviamo a cedere volontariamente questi dati, magari senza essere pienamente consapevoli delle implicazioni. In un’epoca dove l’informazione è potere, anche un click, un “mi piace” o una ricerca possono avere un peso enorme, contribuendo a un sistema che sa benissimo come e quando farci vedere ciò che, probabilmente, ci farà scattare il desiderio di comprare, di cliccare, di rimanere incollati a uno schermo.
Ma, d’altronde, a chi non piace sentirsi “capito”? La domanda che resta aperta è se questa “comprensione” ci dia o ci tolga qualcosa.