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Con la recente sentenza pubblicata il 13 maggio 2024 n. 12967, la prima sezione civile della Cassazione si è espressa su un interessante caso, relativo all’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale da parte di una importante università italiana. La suprema corte conferma il provvedimento del Garante con cui l'autorità aveva sanzionato l'ateneo per 200.000 euro.

Sanzionato dal Garante della privacy il Comune che diffonde i dati personali di una dipendente, tenendoli oltre 15 giorni nell’albo pretorio on line. Uno sforamento del tempo massimo indicato dal Testo unico degli enti locali, per la pubblicazione delle delibere comunali. La Corte di cassazione, con la sentenza 18292, respinge il ricorso del Comune, finito nel mirino dell’Authority, per aver lasciato sul web, per oltre un anno, decisioni dirigenziali nelle quali era indicato non solo il nome e il cognome della dipendente e l’esistenza di un contenzioso con l’amministrazione municipale, ma anche altre notizie.

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Diritto di difesa batte privacy. Il lavoratore può registrare di nascosto le conversazioni con i colleghi per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda: non serve il consenso dell'interessato quando il trattamento dei dati - come l'audio “rubato” all'ignaro interlocutore - serve a precostituirsi un mezzo di prova, magari contro il datore. Ad esempio per il dipendente che vuole dimostrare la natura ritorsiva del licenziamento adottato dalla società. A patto, tuttavia, che l'utilizzo del file non vada oltre le finalità della tesi difensiva e, dunque, le necessità del legittimo esercizio di un diritto. È quanto emerge dalla sentenza 28398/22, pubblicata il 29 settembre dalla sezione lavoro della Cassazione.

Il solo account senza indirizzo IP non è sufficiente per accertare la paternità dei post diffamatori. Lo conferma la Cassazione, nella sentenza 5352/2018, che ha esaminato un caso di diffamazione su Facebook. Nel 2016 la Corte d'appello di Lecce rigettò il ricorso di una sindacalista condannata per aver pubblicato su un forum, col suo account, un post diffamatorio.

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L'Agenzia delle entrate, mettendo in rete nel 2008, le dichiarazioni dei redditi di tutti i contribuenti, relative al 2005, ha violato la loro privacy. Il fisco online aveva riguardato tutti, dal vicino di casa al Vip fino al collega d'ufficio, dividendo l'Italia tra favorevoli e contrari, ma incassando un numero di accessi che aveva mandato in tilt i server. Disse di non vedere alcun problema l'allora vice ministro dell'Economia Vincenzo Visco, parlò invece di «colonna infame» il comico-blogger Beppe Grillo. Contro la “pubblicità” anche le associazioni dei consumatori. A far finire la festa era arrivato a stretto giro lo stop del Garante della privacy. Ieri la sentenza della Cassazione che conferma la violazione della legge sulla privacy. La decisione dell'Agenzia, a parere dei giudici, è andata oltre l'esigenza di trasparenza dettata dalla norme, codice dell'amministrazione digitale compreso.

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La fisionomia del sistema di acquisto di bitcoin «si presta ad agevolare condotte illecite», visto che è in grado di assicurare un grado elevato di anonimato. Via libera quindi alla custodia cautelare per truffa e autoriciclaggio. Lo afferma la Cassazione con la sentenza 27023 della Seconda sezione penale depositata il 13 luglio 2022. 

Senza l’autorizzazione del Garante della privacy è vietato raccogliere le impronte della mano dei dipendenti, attraverso un badge per vedere se sono presenti. Ora lo sa una Srl, attiva nel settore della raccolta dei rifiuti, condannata dall’Authority a pagare una sanzione di 66 mila euro, per aver violato il Codice sulla protezione dei dati personali. La società aveva installato un sistema di raccolta dei dati biometrici della mano, per rilevare le presenze dei dipendenti. Azione che - ad avviso del Tribunale che aveva condannato il Garante a pagare 30 mila euro per responsabilità aggravata - non provava il trattamento dei dati in violazione della disciplina di settore.

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I dati e le informazioni della persona sottoposta a indagini penali, restano nella banca dati della polizia, anche in caso di accertamento dell’estraneità ai fatti, per venti anni dalla data di archiviazione. E trascorsa la metà del tempo, dunque dieci anni, la sola tutela sta nella certezza che saranno visibili ai soli operatori interessati. La Corte di cassazione (sentenza 21362) analizza per la prima volta il Dpr 15/2018 con il quale sono stati attuati i principi del codice della privacy relativi al trattamento effettuato per ragioni di polizia.

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Rischia una condanna per diffamazione aggravata chi insulta altri su Facebook, anche se magari pensa di farla franca solo perché evita di fare il nome della persona offesa. Se infatti gli aggettivi usati sono sufficienti per individuare la persona presa di mira, non sarà poi possibile nascondersi dietro un dito per sottrarsi alle proprie colpe. È il caso di una donna che sul noto social network aveva scritto offese pesanti riferendosi a una conoscente definendola in modo sprezzante “nana” e “spazzina”.

La Cassazione ha pronunciato due principi di diritto in materia di tutela della privacy. Questo è il primo: «in tema di protezione di dati personali, con riferimento a fattispecie non disciplinate dalle norme introdotte dal Dlgs 101/2018, di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679, l'atto di accertamento e di contestazione dell'illecito amministrativo non è irrogativo della sanzione e non risulta idoneo, come tale, a produrre effetti sulla sfera giuridica del presunto trasgressore, sicché questi è carente dell'interesse ad agire con riferimento a una domanda di accertamento negativo dell'illecito solo contestato, potendo unicamente proporre opposizione avverso il provvedimento sanzionatorio che sia successivamente emanato nei suoi confronti dal Garante a norma dell'art. 18 Iegge n. 689 del 1981.

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Il presidente di Federprivacy intervistato su Rai 4

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