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Facebook ha pagato centinaia di collaboratori per far trascrivere ciò che ci diciamo nelle chat audio

Facebook ci ascolta. Il social network di Menlo Park ha pagato centinaia di collaboratori esterni per far trascrivere le chat audio fra gli utenti di Messenger, in modo da avere un testo (quindi dei dati trascritti) anche quando un testo non c'era. Lo ha rivelato l'agenzia Bloomberg, e la stessa Facebook è stata costretta ad ammettere la pratica. Un portavoce della società californiana ha comunque garantito che il tutto è stato interrotto circa una settimana fa, e non vi è intenzione di riprendere questa strada.

Per un tempo abbastanza ignoto, dunque, Facebook ha di fatto ascoltato le conversazioni dei suoi utenti. Ed è giusto ricordare che poco più di un anno fa, davanti al Congresso Usa, Mark Zuckerberg aveva negato questa possibilità. Rispondendo a un senatore, il Ceo di Facebook aveva detto: «lei sta parlando di questa teoria della cospirazione che noi ascoltiamo quello che passa per il microfono degli utenti e lo usiamo per la pubblicità. Non lo facciamo». Zuckerberg era stato perentorio, insomma.

Oggi, però, i fatti potrebbero dargli torto. Ciononostante, è difficile parlare di violazione della privacy degli utenti. Da quanto si apprende, infatti, Facebook ha fatto trascrivere esclusivamente le chat vocali degli utenti che hanno scelto questo tipo di opzione. Difficile, dunque, configurare un'ipotesi di reato. Tuttavia, la policy sull'uso dei dati di Facebook – ampiamente rivista negli ultimi mesi - non fa cenno ai file audio e al fatto che persone terze in carne e ossa possano accedere alle informazioni contenute lì dentro.

Se Facebook ha deciso di far trascrivere i messaggi vocali dei suoi utenti, investendo del denaro per assoldare un team di collaboratori ad hoc, un motivo dovrà pur esserci. La posizione che trapela da Menlo Park è orientata all'innovazione: la trascrizione sarebbe servita a capire quanto l'intelligenza artificiale usata per trascrivere l'audio fosse performante.

L'ipotesi meno ortodossa, invece, spinge a pensare che Facebook possa averlo fatto per avere dati da dare in pasto al suo potente algoritmo. Che il gigante di Menlo Park analizzi in modo maniacale il comportamento degli utenti sulla sua piattaforma, per ricavarne dati utili a scopi di marketing, non è un mistero. Dai like, ai commenti ai messaggi, tutto ciò che avviene su Facebook è oggetto di profilazione. Con la trascrizione degli audio messaggi, potrebbe essere stata aggiunta un'altra casella a questa giostra di dati.

Qualcosa di simile riguarda anche Amazon. Qualche mese fa, infatti, è esploso il caso degli speaker intelligenti del colosso di Seattle. Amazon impiega migliaia di persone in tutto il mondo per rendere più efficiente l'assistente Alexa che gira sui suoi altoparlanti Echo. Il team ascolta le registrazioni vocali catturate nelle case e negli uffici dei proprietari di Echo, le trascrive, le annotate e quindi le inserisce nel software per eliminare le lacune nella comprensione del linguaggio umano da parte di Alexa e aiutarlo a rispondere meglio ai comandi. Il team comprende aziende appaltatrici e impiegati a tempo pieno di Amazon che lavorano un po' in tutto il mondo: da Boston alla Costa Rica, fino all'India e alla Romania. Persone che lavorano nove ore al giorno, analizzando fino a mille clip audio a testa per turno. Un lavoro per lo più banale durante il quale si utilizzerebbe una chat interna per condividere file quando c'è bisogno di aiuto per analizzare una parola confusa o una registrazione divertente.

Il fatto che un team “umano” ascolti un campione di registrazioni di Alexa, seppur a scopi migliorativi, ha aperto un nuovo dibattito sulla protezione dei dati personali. È francamente difficile, però, parlare di privacy violata. Perché che Amazon registri la cronologia di ciò che diciamo al suo speaker è cosa nota (ma lo stesso fa Google e tutti gli altri player del settore). E ogni utente ha espressamente acconsentito. Nessuno ci ha però detto che altri umani potessero ascoltare le conversazioni col cilindro di Jeff Bezos. Ma in fondo neanche il contrario.

Fonte: Il Sole 24 Ore

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