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La sottile linea tra il consenso genitoriale e la tutela del diritto all’immagine

Nel luglio 2019 il Codacons presentava un esposto alla Procura di Roma, al Garante della Privacy e dell’Infanzia, sollecitando la valutazione di possibili profili di reato e/o di responsabilità a fronte della pubblicazione da parte di personaggi più o meno pubblici di foto ritraenti il propri figli, minori se non addirittura neonati, talvolta ripresi in pose non rappresentative della loro giovane età.


In particolare, il Codacons rimarcava, attraverso dossier di foto reperite sui social, come tale pratica – sfortunatamente sempre più frequente – potesse condurre allo spiacevole risultato di rendere i minori delle “vittime dell’illecito trattamento dei propri dati personali, nonché, ancor peggio, di fattispecie di reato ben più gravi. [trattandosi di] Immagini che immortalano minori in tenera età, senza l’adozione di alcun tipo di accorgimento, ai soli fini esibizionistici o di lucro”.

L’Associazione, peraltro, aggiungeva che “Come rappresentato da moltissimi psicanalisti interrogati sul tema, i bambini, una volta cresciuti e alle prese con la propria rete sociale, su quelle piattaforme, si ritroveranno dotati di un fardello di contenuti digitali impropriamente pubblicati nel corso degli anni dai genitori. Senza, ovviamente, che il soggetto più importante della relazione – il bambino – abbia avuto alcuna possibilità di dire la sua”.

Tutto questo risulta allarmante, considerato che la moda di condividere il proprio quotidiano è altresì seguita da persone “comuni” che, in uno spirito di condivisione (per non dire di emulazione), assecondano l’irrefrenabile voglia di rendere pubblico il loro privato.

Ben più chiaro – seppur in ogni caso non condivisibile – è il fine di chi della visibilità ne ha fatto una professione, pubblicando di conseguenza immagini di minori che vestono e/o rappresentano un noto brand, senza esserne (pienamente) consapevoli delle conseguenze che uno smodato uso dei social può comportare, a soli scopi esibizionistici o di lucro, o semplicemente promozionali.

Le perplessità del Condacons nascono dal proliferare dell’uso dei social, complici dell’aver dato vita alla figura dell’influencer: quando, infatti, prima l’attività di un soggetto che pubblicava le proprie fotografie o che acconsentiva a posare con un oggetto o indumento di un determinato brand, poteva essere ricondotta a quella di testimonial o di endorser, oggi l’influencer configura una vera e propria professione.
Ma quali sono le implicazioni, allorquando chi pubblicizza un determinato brand è il figlio di queste celebrities, sfruttandone la relativa immagine?

La normativa - Il diritto all’immagine è un diritto della personalità tutelato dal codice civile (art. 10), dalla L. 633/1941 sul diritto d’autore e dalla legge sulla privacy (D.Lgs. 196/2003), dal cui combinato disposto si desume che l’immagine di un soggetto può essere esposta o pubblicata soltanto con il consenso di quest’ultimo, a meno che la pubblicazione sia esplicitamente consentita dalla legge. Si tratta di un diritto personalissimo e inalienabile: pertanto, attraverso il consenso ciò che viene ceduta a terzi è la possibilità di utilizzo dell’immagine e non il diritto stesso.

Con specifico riferimento alla disciplina in ambito privacy a tutela del minore, in questa sede occorrerà citare il considerando 38 del Regolamento UE 2016/679 (GDPR), a mente del quale “I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali. Tale specifica protezione dovrebbe, in particolare, riguardare l’utilizzo dei dati personali dei minori a fini di marketing o di creazione di profili di personalità o di utente e la raccolta di dati personali relativi ai minori all’atto dell’utilizzo di servizi forniti direttamente a un minore (…)”.

Si richiama al suddetto considerando proprio l’articolo 8 del GDPR (Condizioni applicabili al consenso dei minori in relazione ai servizi della società dell'informazione), secondo cui “1. Qualora si applichi l'articolo 6, paragrafo 1, lettera a), per quanto riguarda l'offerta diretta di servizi della società dell'informazione ai minori, il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni [14 anni per l’ordinamento italiano, ex d.lgs. 101/2018, art. 2 quinquies]. Ove il minore abbia un'età inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale (…) 2. Il titolare del trattamento si adopera in ogni modo ragionevole per verificare in tali casi che il consenso sia prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale sul minore, in considerazione delle tecnologie disponibili (…)”.

Il caso di specie: la sottile linea tra il consenso genitoriale e la tutela del diritto all’immagine. Una (non esaustiva) svolta verso il futuro.  Con riferimento alla tutela del minore, appare evidente come il comportamento di cui al caso affrontato violi le normative nazionali ed internazionali.

In particolare, il Codacons, dopo aver rimarcato come la tutela della vita privata e dell’immagine dei minori abbia trovato cittadinanza, nell’ordinamento italiano, nell’art. 10 c.c. (concernente la tutela dell’immagine) e nel combinato disposto degli artt. 4,7,8 e 145 del D.Lgs. 30.06.2003 n. 196 (riguardanti la tutela della riservatezza dei dati personali), sottolinea altresì come la medesima sia disciplinata dagli “artt. 1 e 16 I co. della Convenzione di New York del 20-11-1989, ratificata dall’Italia con legge 27-5-1991 n. 176 (laddove, in particolare, l’art. 16 stabilisce che: “1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti”), sottolineando in modo netto come debba essere necessariamente data preminenza agli interessi e alla dignità del minore. Anche l’art. 8 delle Regole di Pechino, intitolato “Tutela della vita privata”, prevede che “il diritto del giovane alla vita privata deve essere rispettato a tutti i livelli, per evitare che inutili danni gli siano causati da una pubblicità inutile e denigratoria”.

Dunque, come si concilia la tutela del diritto all’immagine con la tutela del minore, nel caso in cui siano i genitori stessi (in particolare, coloro dotati di forte visibilità) a pubblicare foto di minori?

Dall’art. 8 del GDPR si desume solamente che qualora il minore abbia un'età inferiore ai 16 (14, nel caso dell’ordinamento italiano) anni, il trattamento dei dati è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale. Fin qui, nulla di nuovo. Il problema, tuttavia, si pone quando, seppur in presenza del consenso del genitore al trattamento dei dati, si rischia di oltrepassare la sottile linea del lecito e del legittimo andando ad intaccare la sfera privata del fanciullo. Ad oggi, però, non esiste una normativa volta a tutelare una situazione così specifica relativa allo sfruttamento delle immagini del minore da parte dei genitori stessi.

I tentativi per fronteggiare – seppur per vie traverse – il problema sono molteplici: è recente la notizia secondo cui, tra luglio e settembre 2019, Facebook ha rimosso ben 11.6 milioni di immagini inappropriate di minori o violative delle regole contro lo sfruttamento degli stessi.

Anche in Italia, la stessa Codacons con una lettera indirizzata a Facebook ha richiesto di intervenire sospendendo la pubblicazione su Facebook ed Instagram di tutte le immagini ritraenti minori e diffuse in violazione della normativa vigente.

Tutti passi degni di nota, dissuasivi della scelta, da parte di ciascun genitore, di pubblicare l’immagine del proprio figlio. Tuttavia si tratta di una pratica complessa da tenere sotto controllo, data proprio l’oggettiva impossibilità di valutare il limite della liceità del consenso prestato dal genitore.

Potrebbero, a tal proposito, portare ad una meditata ed ulteriore riflessione dei noti, seppur circoscritti, precedenti, rappresentati dal Tribunale di Mantova (ordinanza 19.09.2017, Pres. Rel. Dr. Bernardi) e dalla più recente decisione del Tribunale di Rieti (sentenza del 07.03.2019, Pres. Rel. Dr. Sbarra), che segnano certamente un passo avanti, seppur non decisivo e tantomeno risolutivo, rispetto al tema in questa sede affrontato.

Il Tribunale di Mantova, infatti, aveva inibito a una madre, all'interno di un giudizio di separazione, l'ulteriore diffusione delle immagini dei figli senza il consenso dell'altro genitore. Nel caso affrontato dal Tribunale di Rieti, invece, si rivela ben più interessante in quanto è una delle prime decisioni ad essere state emesse successivamente all’entrata in vigore del GDPR e alla legge di adeguamento (d.lgs. 101/2018), affrontando il caso in cui il fatto ritenuto lesivo era stato commesso non da uno dei due genitori ma da un terzo (nel caso di specie, la compagna del padre), circoscrivendo in toto il principio per cui il trattamento dei dati personali del soggetto minorenne è sempre subordinato al consenso di «chi esercita la responsabilità genitoriale».

Da ciò si deduce altresì che l'autorizzazione al trattamento dei dati personali e la diffusione dell'immagine del soggetto minore di età rientrano nelle decisioni di straordinaria amministrazione nell’interesse del minore, per cui è necessario il consenso di entrambi i genitori, anche in caso di separazione o divorzio, differentemente da quanto accade per le decisioni di ordinaria amministrazione nel cui caso basterebbe il consenso di un solo genitore.

Trattasi di due esempi utili per comprendere come il consenso, in tal caso, sia circoscritto ai soli genitori: resta da comprendere come, a sua volta, il consenso del genitore medesimo possa essere circoscritto in base al contenuto delle immagini che si ritiene di pubblicare. In tale caso non esiste una disciplina specifica, sino a quando l’autorità giudiziaria o quantomeno il Garante si adoperino a tal fine. Al momento, è solo possibile confidare nel buon senso del genitore, circostanza – purtroppo – non sempre da ritenersi scontata.

Conclusioni - In conclusione, nonostante la normativa nazionale e quella del GDPR ritengano lecito il trattamento dei dati del minore soltanto se e nella misura in cui il relativo consenso sia prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale, nulla, tuttavia, si dispone nel caso in cui la prestazione del consenso genitoriale non tenga (del tutto) conto di quanto rimarcato dall’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il quale, stabilendo dapprima ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano”, precisa, al comma 2, che detti dati “devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge”. Circostanza che certamente deve osservare chi si appresta a trattare i diritti del fanciullo, ma di cui i genitori dovranno tener conto all’atto della pubblicazione della foto del proprio figlio, quantomeno in un’ottica di prevenzione.

Note Autore

Guerrino Pescali Guerrino Pescali

Data protector manager di Proconsul Group - Socio membro di Fedeprivacy, Delegato Provinciale per Brescia - Email: [email protected]

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