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La Corte di giustizia europea ha bocciato oggi le normative nazionali che impongono la raccolta e la conservazione indiscriminata dei dati personali da parte delle società di telecomunicazioni e di quelle tecnologiche operanti in questo campo, confermando che il diritto dell'Unione si oppone a questo tipo di disposizioni salvo quando siano giustificate da una "grave minaccia" alla sicurezza nazionale.

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Per la Corte Ue, convocata in Grande Sezione (cause riunite C-37/20 e C-601/20), alcune disposizioni della direttiva antiriciclaggio (2015/849 per come modificata dalla direttiva 2018/843) sono "invalide" alla luce della "Carta". In particolare, quelle che permettono agli Stati membri di rendere accessibili in ogni caso al pubblico le informazioni sulla titolarità effettiva delle società e delle altre entità giuridiche costituite nel loro territorio.

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Nella recente sentenza della Corte giustizia Unione Europea n. 268/21 del 02/03/2023 viene riaffermato il diritto ad accedere alle prove necessarie per dimostrare adeguatamente le proprie ragioni in causa, prove che possono eventualmente includere dati personali delle parti o di terzi, purché esse siano sempre valutate alla luce del principio di minimizzazione dei dati di cui all’art. 5 par. 1 lett. c ) del GDPR.

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La Corte di giustizia dell'Unione europea ha respinto come inammissibile un'azione intentata da WhatsApp contro la decisione vincolante dello European Data Protection Board assunta ai sensi dell’art. 65 del Regolamento UE 2016/679 che lo scorso anno aveva portato alla sanzione da 225 milioni di euro per la nota piattaforma di microchat.

Solo una violazione dolosa o colposa del GDPR può condurre all’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria. Questa l’affermazione della Corte Ue contenuta nelle sentenze C-683/21 e C- 807/21.

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No all’accesso indiscriminato ai tabulati telefonici e a tutti gli altri dati nelle mani delle Telco - come posizione, pagine internet visitate ecc. - per identificare gli autori di un reato che non sia di gravità tale da autorizzare una simile ingerenza nei diritti fondamentali della persona. Questo principio viene esteso dalla Corte Ue, sentenza della Corte nella causa C-178/22.

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Sono ben 8 i punti, tutti di interpretazione del Regolamento europeo di protezione dei dati personali, nei quali sono cristalizzate le conclusioni della Corte di giustizia europea (sentenza nella causa C-252/21) sulla legittimità della condotta di Meta. I fatti, innanzitutto: Meta Platforms Ireland gestisce l’offerta Facebook nell’Unione. Iscrivendosi al social network gli utenti accettano le condizioni generali stabilite e, di conseguenza, le regole sull’uso dei dati e dei marcatori (cookies). Meta raccoglie così dati riferiti alle attività degli utenti all’interno e all’esterno del social network e li mette in relazione con gli account Facebook degli utenti interessati.

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Una decisione che rimescola le carte, e che apre nuovi fronti nel complesso mondo giurisprudenziale dei social network. La Corte di giustizia europea ha stabilito il 3 ottobre che i singoli Paesi possono costringere Facebook a eliminare i contenuti illegali, incluso quelli che incitano all'odio, sia all'interno dell'Ue che in tutto il mondo.

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Secondo il parere dell’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) la pubblicazione online dei dati personali di un atleta relativi alla sospensione dall’attività professionistica per doping da parte di una autorità nazionale antidoping non viola il Gdpr.

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Nella sentenza resa nel caso C-416/23 il 9 gennaio 2025, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che ai cittadini non si può limitare di esercitare i diritti sulla privacy impedendo loro di presentare non più di due reclami al mese al Garante per la protezione dei dati personali, così come invece aveva imposto l’autorità austriaca.

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TV9, il presidente di Federprivacy alla trasmissione 9X5

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