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Il Wall Street Journal ha pubblicato pochi giorni fa un articolo a firma Sam Schechner che annuncia un vero e proprio terremoto nel modello di business che è alla base dei successi di Meta e delle piattaforme ad essa ricollegabili. Inoltre l’annuncio del WSJ costituisce anche una notizia importante circa il ruolo che sempre più sta assumendo lo European Data Protection Board nell’applicazione del Gdpr anche rispetto ai meccanismi di controllo e coerenza tra le Autorità di controllo sull’uso dei dati personali.

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Facebook deve rimuovere i post del cui contenuto diffamatorio è pienamente consapevole. In caso contrario deve essere sanzionata sul piano pecuniario. A questa conclusione approda il Tribunale di Milano, Prima sezione civile, con sentenza con la quale Facebook è condannata al risarcimento danni nei confronti di Snaitech per non avere tempestivamente cancellato una serie di contenuti diffamatori pubblicati nelle pagine «Truffa Snaitech» e «Snaitech Truffa».

Porta aperta alle class action e alle richieste danni contro il social network che esagera sulla gratuità dei servizi offerti agli utenti digitali. I dati personali sono inseriti in un circuito di sfruttamento commerciale e tutto questo va chiarito fin da subito. Se, invece, si pone l'accento magnificando la gratuità del servizio, allora si commette pubblicità ingannevole. E l'Antitrust applica la relativa sanzione pecuniaria e può obbligare a diffondere un comunicato che metta in evidenza la scorrettezza. Così come è capitato a Facebook, cui l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha applicato una sanzione di 5 milioni di euro, obbligando a pubblicare un avviso in cui dichiara di avere violato il codice del consumo, per mancata adeguata informazione agli utenti. Le sanzioni sono state confermate dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2631 del 29/3/2021.

La Corea del Sud ha inflitto sanzioni milionarie alle società Alphabet e Meta per violazione della normativa coreana sulla privacy.  A renderlo noto con un comunicato stampa è stata la stessa Commissione per la protezione delle informazioni personali del Paese, che ha inflitto ad Alphabet una multa di un importo pari a 49,8 milioni di dollari e una a Meta di circa 22 milioni di dollari.

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L'amministratore di una fanpage su Facebook è responsabile assieme a Facebook del trattamento dei dati dei visitatori della sua pagina. Questo l’esito della sentenza emessa dalla Corte Ue nella causa C-210/16. L'autorità per la protezione dei dati dello Stato membro in cui tale amministratore ha la propria sede può agire, in forza della direttiva 95/46 , sia nei confronti di quest'ultimo sia nei confronti della filiale di Facebook stabilita in tale medesimo Stato.

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La tutela della privacy potrebbe rendere più complicato anche mettere un «like» su Facebook. E, di conseguenza, impattare sulle strategie delle aziende che vendono sul web. Lo lascia prevedere la sentenza con cui ieri la Corte Ue ha deciso sulla causa C-40/17, stabilendo che il gestore di un sito internet in cui è possibile cliccare sull’icona «like» può essere ritenuto responsabile della raccolta e della trasmissione dei dati personali dei visitatori insieme con Facebook.

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Per anni, Facebook ha dato ad alcune delle più grandi aziende tecnologiche al mondo un accesso privilegiato ai dati personali degli utenti. Una specie di pacchetto all inclusive, dove gli optional erano le informazioni riservate di milioni di persone. Una procedura che è andata ben al di là di quelle che sono le regole sulla privacy. A rivelarlo, con un'inchiestache al cospetto la storia di Cambridge Analytica sembra un romanzo estivo, è il New York Times.

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Facebook avrebbe tentato di esercitare pressioni su diversi politici in varie parti del mondo affinché facessero lobbying a favore dell'azienda contro le leggi sulla protezione dei dati. Lo scrive l'Observer, citando nuovi documenti che il settimanale insieme con la pubblicazione Computer Weekly ha preso in visione. Tra i politici citati l'ex cancelliere dello Scacchiere britannico, George Osborne, e l'ex premier irlandese, Enda Kenny.

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Attenzione alle critiche espresse sul proprio profilo Facebook. Infatti, può costituire diffamazione la diffusione di foto che riprendono un momento "criticabile" della vita di terzi dando, in pasto all'estesa platea dei social, l'impressione che lo scatto sia rappresentativo di una condotta generalizzata di chi vi è ritratto e di cui così si offende la reputazione. La Corte di cassazione con la sentenza n. 11426/2021 ha respinto il ricorso contro la condanna per diffamazione di un privato cittadino che dopo aver fotografato gli operai di un cantiere pubblico postava la foto su Facebook con una discalia che puntava il dito - con ironia e senza espressioni formalmente offensive - sull'attegiamento estremamente rilassato se non disinteressato rispetto al lavoro che questi stavano svolgendo.

Diffamazione aggravata per un post su Facebook anticipato dall'avviso a "poveri ebeti". La Cassazione con la sentenza 9790/2021 conferma la responsabilità penale a carico di un medico che sulla piattaforma ha utilizzato frasi offensive nei confronti di un avvocato durante una discussione via web. Il ricorrente nell'impugnare la sentenza dei giudici di merito in particolare aveva chiesto l'applicazione della particolare tenuità del fatto o al limite un trattamento sanzionatorio più mite.

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